Dalla Chiesa di Sant’Antonio Abate alla Cattedrale di San Lorenzo
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PORTA SOLE
Il rione
Dei cinque rioni di Perugia, Porta Sole si sviluppa nella parte più elevata del sistema di colline su cui nei secoli si è sviluppa la città. Aggrappato come un nido di un rapace sulla sommità di un colle, nel corso del Medioevo il borgo si è espanso in maniera concentrica a fianco della cinta muraria etrusca e successivamente con lo sviluppo di appendici allungate sui colli limitrofi come ad esempio Borgo Sant’Antonio, uno dei quartieri popolari per eccellenza del centro storico.
In riferimento a questa posizione così peculiare, il sommo poeta Dante Alighieri che nel canto XI del Paradiso ha realizzato una della più splendide descrizioni dell’Umbria, così parla in riferimento a questo rione cittadino: “intra Tupino e l’acqua che discende del colle eletto ddel beato Ubaldo, fertile costa d’alto monte pende, onde Perugia sente freddo e caldo da Porta Sole…..”
L’esposizione verso oriente, esposto ai venti, in particolare alla fredda tramontana, è all’origine anche del toponimo del quartiere, che la tradizione storica indica come sviluppatosi a partire da uno dei due colli maggiori della città, ove era presumibilmente un Tempio dedicato alla divinità solare.
La simbologia
Nel Medioevo, il Comune di Perugia adottò una rigida suddivisione della città tra i cinque rioni storici per una migliore gestione amministrativa e a quell’epoca risalgono i toponimi con cui sono indicati e la particolare simbologia. I nomi dei rioni fanno tutti riferimento alle Porte dell’antica cinta muraria etrusca, mentre nella simbologia e nei colori vi sono rifererimenti più complessi.
In questo caso, nel corso dei secoli il simbolo del rione è sempre rimasto il Sole, figura densa di riferimenti sia nel mondo classico che a quello cristiano.
Furono gli Egizi a fondare il culto della “stella del giorno” e successivamente i nepolatonici identificarono il Sole con l’anima razionale. Nella cosmologia dantesca il Sole è sede dell’aritmetica e della sapienza teologica (non a caso fu questo uno dei simboli dell’ordine domenicano). Per il filosofo fiorentino Marsilio Ficino questo astro reggeva e amministrava la poesia e la medicina servendosi della musica e del canto come potenti strumenti di guarigione. Il Sole illumina poi il cuore degli uomini spingendoli all’amore per la conoscenza. Dispensatore di luce, energia e calore il Sole sin dall’avvento del Cristianesimo è stato assunto come simbolo cristologico. Gesù in molte raffigurazioni artistiche dei primi secoli della cristianitàè rappresentato come una trasfiguraione dell’antico fio Elio, fonte di luce e sorgente di vita. Tale identificazione è sancita poi dalle principali festività del calendario cristiano: la domenica (l’antico Dies Solis) e la Natività di Gesù (Natale del Sole Invitto).
La Via regale e il contado
Da questa parte della città si sviluppava la via regale che conduceva alla valle del Tevere e andava a ricongiungersi alla via consolare Flaminia. Da tale via di comunicazione arriva in città anche un grande quantitativo di farina, proveniente dai mulini sul Tevere, perciò il colore del rione è il bianco su cui spicca il Sole d’oro.
La parte di campagna compresa nel contado di Porta Sole comprendeva gli importanti insediamenti lungo il Tevere come Ponte San Giovanni, Ponte Valleceppi e Ponte Felcino e si pingeva in direzione di Assisi con i castelli di Collestrada, Civitella d’Arna, Ripa e Pilonico Paterno.
Quest’ itinerario che dalle appendici orientali del centro storico ci conduce sino alla Cattedrale, ha inizio nell’area di Monteluce, su uno dei colli più panoramici che dominano da una lato l’acropoli perugina e dall’altro la valle Tiberina e Assisi.
Preesistenze etrusche e romane
In questo luogo dunque, in una posizione così significativa, gli storici locali ritengono sorgesse in epoca etrusca un tempio dedicato a qualche antica divinità, forse la dea Feronia o Vesta come ipotizzato da Ciatti, oppure Iano come riportato da Pompeo Pellini.
Ripetute scoperte archeologiche, tra cui quella della celebre tomba della famiglia Cutu, (oggi ricostruita all’interno del Museo Archeologico dell’Umbria), hanno testimoniato la presenza a Monteluce di una necropoli etrusca, posta anch’essa, come nel caso della necropoli del Palazzone, lungo una delle principali vie di comunicazione tra la città e il territorio circostante.
Per quanto riguarda la presenza di un tempio nell’area suddetta, ad esso sarebbe da riferire un’antefissa a forma di Menade di età tardo-arcaica conservata nel locale Museo Archeologico (A. Andrén). Nel XVII secolo grazie agli studi di uno storico tedesco fu ipotizzata la presenza in età romana di un bosco sacro in onore dell’imperatore Augusto a cui faceva riferimento un’epigrafe con l’iscrizione “Augusto Lucus Sacer”. Al di là della veridicità o meno di tale testimonianza, la posizione del colle di Monteluce, a dominio delle vallate sottostanti e di fronte alla città antica, sicuramente poteva giustificare la presenza di un luogo sacro. Il toponimo stesso, estremamente suggestivo, richiama con tutta probabilità proprio l’esistenza di un antico luogo di culto, come per esempio è il caso del bosco di Monteluco a Spoleto, tutelato dalla celebre lex spoletina.
La patrona
Nel corso dei secoli, con l’avvento del cristianesimo, si perse memoria dell’origine pagana del nome di questi luoghi e il riferimento principale nella toponomastica del luogo fu , ma la luce che da oriente sembrava per i perugini sorgere proprio da questi colli, tanto da rendere ancora più suggestiva la dedicazione alla Vergine Assunta in cielo, la “Donna vestita di sole”, della futura chiesa che qui sorse.
Borgo e porta Sant’Antonio
Usciti nella piazza di Monteluce ci incamminiamo verso il centro storico attraverso via Cialdini, la principale via storica che collega Monteluce al centro storio, ove sulla sinistra si riconoscono le vestigia di antiche bottege medievali, le uniche rimaste in città nel loro aspetto originale.
Proseguendo lungo via Cialdini emerge la presenza di un imponente bastione in laterizio costruito nel XVI secolo sulle strutture trecentesche che formavano il cassero di Sant’Antonio collegato alla cittadella del Monmaggiore sul colle del Sole. Si arriva quindi a Porta Sant’Antonio, appartenente alla seconda cerchia di mura realizzata dal XIV secolo in poi con l’espansione cittadina.
Prima di entrare nel Borgo, vale la pena soffermarsi ad osservare la splendida vista che si gode lungo le mura medievali sino al rione di Porta Sant’Angelo, ove spicca l’imponente complesso di Sant’Agostino.
Da questo accesso il 14 settembre 1860 entrarono in città le milizie di Vittorio Emanuele II sancendo così l’ingresso di Perugia nel Regno d’Italia. Ai Bersaglieri è dunque intitolato il Corso che come una spina di pesce attraversa tutto il quartiere sviluppato sul crinale di una collina.
La struttura di Borgo Sant’Antonio, venne a conformarsi entro la fine del Duecento con i medesimi caratteri urbanistici delle altre appendici cittadine che nella stessa epoca si sviluppano lungo i colli intorno all’antica città etrusca.
La strada centrale (Corso Bersaglieri) attraversa il borgo collegando due porte urbane fra cui non c’è diretta comunicazione visuale; brevi vicoli apettine servono sul lato destro una doppia fila di isolati; il tutto circondato da un lungo giro di mura esterne.
Tra tutti i quartieri cittadini, il Borgo di Sant’Antonio, assieme a quello di Porta Sant’Angelo era quello maggiormente caratterizzato da una componente popolare e contadina, elemento questo epsresso anche dalla minuta e semplice edilizia presente nel quartiere. L’inurbamento di numerosi nuclei familiari provenienti dal contado, che si registrò a partire dalla metà del XIII secolo fu proprio una delle cause dello sviluppo rapido dei borghi perugini.
Quest’anima popolare e contadina è ancora fortemente percepibile nel Borgo, anche grazie alla tenacia con cui gli abitanti portano avanti le nuove e antiche tradizioni che animano la piccola comunità.
FUORI PORTA: IL MONASTERO DI MONTELUCE
Le origini
Dagli inizi del XIII secolo tutta l’area di Monteluce conobbe una fioritura di nuovi insediamenti religiosi tra cui uno dei primi fu l’eremo di Favarone, ove nel 1215 dimorò uno dei primi compagni di San Francesco, il Beato Egidio. Nello stesso periodo, forse attratte dalla predicazione e dall’esempio della vita austera dei compagni di Francesco, si radunarono delle pie donne che conducevano vita comune incentrata in particolare sulla preghiera. Pochi anni dopo, nel 1218, il nobile perugino Glotto Monaldi donò all’allora legato della Sede Apostolica, Cardinale Ugolino d’Ostia futuro papa Gregorio IX e vero fondatore dell’ordine francescano femminile, un vasto terreno nell’area di Monteluce per costruirvi una chiesa e un monastero. Fu questo uno tra i più antichi insediamenti di monache clarisse, sviluppatosi secondo l’esempio del convento di San Damiano (vivente ancora San Francesco), dove Santa Chiara e le sue consorelle vivevano in obbedienza, povertà, castità e clausura. Fu papa Gregorio IX che seguì sempre con molto favore questa comunità, a concedere nel 1229 il “privilegium paupertatis” lo stesso che l’anno precedente era stato concesso alla comunità di San Damiano di Assisi. Cambia nelle due bolle papali solamente il nome della destinataria che nel caso di Monteluce è suor Agnese che può essere identificata come la sorella di Santa Chiara. Il privilegio della povertà testimonia la volontà della comunità di seguire le orme di Cristo povero come indicato da Francesco e Chiara; tuttavia nei decenni successivi furono numerose le donazioni anche di terreni che accrebbero notevolmente le proprietà delle religiose. Il Monastero dunque, sin dagli inizi della sua storia, nonostante seguisse una regola che prevedeva la povertà, accrebbe la sua importanza ed i suoi possedimenti, tanto che nel corso dei secoli successivi andò aumentando in modo esponenziale la propria ricchezza grazie alle proprietà, alle indulgenze ed ai privilegi concessi da numerosi pontefici che non autorizzarono mai d’altra parte l’alienazione di questi possedimenti . In questo clima di generale rilassamento e decadenza dei costumi e della spiritualità, emerse la figura di San Giovanni da Capestrano, che nel 1448 riformò l’ordine riportandolo nell’alveo dell’Osservanza francescana.
A Monteluce arrivarono 24 monache dal monastero di Santa Lucia di Foligno che contribuirono ad un ritorno alla vita comune delle religiose e alla povertà individuale. Vennero così recuperati tre punti fondamentali della spiritualità di Santa Chiara: la santa unità in luogo dell’individualismo, la povertà anziché la proprieta privata e il legame con il Primo Ordine francescano.
Nel ricostruire e comprendere le abitudini e le particolarità della vita quotidiana nel Monastero e anche la struttura stessa dell’edificio, (oggi a parte la chiesa non più esistente), sono fondamentali i numerosi documenti d’archivio redatti nei secoli dalle monache. In particolare, gli accurati registri contabili e soprattutto il “Memoriale di Monteluce”, vera memoria storica tenuta dalle badesse, che ci racconta in molti casi, oltre alle piccole attività quotidiane, un vero spaccato di storia cittadina, raccontato dalle religiose.
Dall’esame di tali documenti, risulta che il vasto patrimonio terriero del monastero, nel XV secolo era gestito da un fattore il quale si occupava in particolar modo di case, mulini e gualchiere (macchine per il lavaggio e la follatura della lana); elemento questo, che come le spese sostenute dalle monache per l’acquisto di stoffe preziose per la tessitura, ne attesta la centralità tra le attività svolte dalle religiose.
I secoli tra il XVI e il XVIII secolo furono probabilmente quelli del massimo splendore del monastero di Monteluce, il quale divenne il più ricco tra quelli femminili della città e la cui chiesa fu decorata di sontuose opere d’arte. I lasciti e le donazioni potevano essere sia di natura pecuniaria che beni mobili o immobili e provenivano sia da famiglie ricche che da quelle comuni in debita proporzione e molto spesso erano eredità che per testamento andavano ad una religiosa e di conseguenza al Monastero. Inoltre le novizie che prendevano i voti erano solite portare una “dote” che poteva andare da pochini fiorini a centinaia di ducati d’oro.
L’attività religiosa del Monastero era affidata dal 1448, al convento francescano di San Francesco del Monte a Monteripido e tale legame rimase in vita sino al 1703, quando la cura spirituale passò dai francescani dell’Osservanza al vescovo di Perugia e al clero diocesano.
Degli spazi e strutture presenti un tempo all’interno del Monastero, oggi non rimane praticamente più nulla in seguito alla sua trasformazione e adeguamento in Ospedale agli inizi del XX secolo. A tale proposito possiamo solo fare riferimento a fonti d’archivio per immaginare la vita e in parte l’aspetto di questo luogo. Tra il 1451 e il 1459 furono creati infatti nuovi spazi come il refettorio e la cucina e un nuovo dormitorio e per fare ciò vennero riutilizzate pietre e materiali del monastero di San Paolo del Favarone. All’interno del monastero è attestata la presenza di una biblioteca comune e dal XV secolo quella di uno scriptorium, cosa rara in un monastero femminile. Certo l’attività scrittoria e lo studio non possiamo paragonarlo a quello svolto in monasteri e conventi di ordini religiosi maschili, ma ci viene comunque testimoniato il prestigio anche culturale di cui godeva Monteluce. Infine, di fondamentale importanza per la cura delle inferme, risulta essere la presenza all’interno del complesso monastico dell’infermeria. Le monache coltivavano loro stesse numerose erbe e dal 1613 sappiamo che vi era una vera e propria farmacia-erboristeria o spetiaria. La cura e assistenza dei malati e la preparazione di rimedi naturali fu dunque un’attività non secondaria delle religiose anche nei confronti dei poveri che ad esse si rivolgevano.
Con gli ultimi decenni del XVIII secolo, iniziarono però tempi sempre più turbolenti per la comunità di Monteluce, a partire dall’arrivo dei napoleonici che nel 1797 requisirono la preziosa pala d’altare dell’Incoronazione della Vergine; sino ad arrivare alle requisizioni post-unitarie.
Nel XIX secolo la zona di Monteluce era ancora aperta campagna e il monastero e la chiesa erano l’unico edificio esistente. Intorno, si trovavano le terre coltivate dai contadini per conto delle monache e verso Porta Pesa un bellissimo parco proprietà dei nobili Sorbello.
Uno dei primi provvedimenti nel neonato stato italiano fu la promulgazione l’11dicembre 1860 dell’Editto Pepoli sulla demaniazione degli edifici e dei beni religiosi. L’ordine delle Clarisse essendo ordine mendicante non venne soppresso e le monache di Monteluce ebbero quindi inizialmente la possibilità di rimanere nella loro sede. Ma i funzionari governativi attuarono ben presto sopralluoghi ripetuti, tramite i quali vennero requisite opere d’arte, libri antichi, documenti notarili e persino le pergamene dei privilegi concessi al Monastero sin dalla sua erezione.
L’editto Pepoli, tolse al convento ogni tipo di bene e di rendita, tuttavia assicurò alle monache una pensione mensile di sussistenza. La politica volta a sradicare la presenza della chiesa nel neonato stato italiano e in realtà come quella umbra in particolare, (era una delle principali preoccupazioni di Cavour all’indomani della conquista dell’Umbria) portò al divieto di fare entrare delle postulanti nel monastero e alla espulsione delle novizie. Chiaramente lo scopo fu quello di indebolire progressivamente e rapidamente il numero dei membri degli ordini religiosi.
Fu a partire poi dal 1883 che sempre con maggiore insistenza si cominciò a sostenere in città la necessità del trasferimento dell’Ospedale della Misericordia ubicato nell’attuale via Oberdan, nell’edificio del Monastero di Monteluce. Ci vollero però quasi trent’anni affinchè il Comune e la Congregazione della Carità che gestiva l’Ospedale perugino, riuscissero nel loro intento. Fu una vera campagna di laicizzazione forzata del tessuto cittadino, quella che si svolse in quegli anni a Perugia e Monteluce, come gli altri conventi cittadini, fu alla fine requisito e riutilizzato dai nuovi dominatori dello stato italiano.
Il regime anticlericale e massonico del nuovo ordine politico, è quindi da ritenersi all’origine del grave degrado e conseguente perdita che il patrimonio artistico perugino dovette subire negli ultimi decenni dell’Ottocento.
Le Clarisse a Sant’Erminio
Il 12 maggio 1910 dopo quasi sette secoli le Clarisse lasciarono così Monteluce. Tutti i mobili, libri e oggetti d’arte erano stati confiscati dal Fondo per il Culto, il quale avrebbe potuto usufruirne a suo piacimento. Le monache, dovettero persino predisporre alla traslazione delle spoglie di molte suore che erano sepolte nel Monastero, per evitarne la profanazione in seguito ai lavori che modificheranno l’intera struttura e separeranno per sempre la chiesa dal resto del complesso.
Per il trasloco le religiose dovettero inoltre spendere un’ingente somma e a ciò venne aggiunta anche la tassa da pagare per l’accesso in città da Porta Pesa, da cui volutamente non furono esentate dal Comune. Le suore dapprima furono ospitate nel convento di Sant’Agnese in Porta S. Angelo e poi dal 1925 a Sant’Erminio (ex monastero femminile di San Benedetto), dove si trovano tuttora, mantenendo sempre il nome di Comunità delle Clarisse di Monteluce.
Il Policlinico
Il complesso del Monastero, venne in seguito ampiamente modificato e ampliato per far spazio negli anni, alle molteplici esigenze di cura e assistenza medica del Policlinico di Perugia, che ha avuto qui la sua sede sino al 2008 quando gli ultimi reparti furono trasferiti nella nuova struttura ospedaliera posta nella periferia cittadina. Tutta l’area dell’ex policlinico, è stata quindi oggetto negli ultimi anni di un importantissimo intervento urbano di riconversione e riqualificazione che mira anche a riportare il quartiere all’interno delle dinamiche sociali e culturali cittadine.
La chiesa
La chiesa di Santa Maria Assunta in Monteluce, divenuta parrocchia nel 1913 si erge nella semplice piazza antistante la cui attuale sistemazione risale agli anni Novanta del secolo scorso. La facciata dell’edificio presenta un prospetto a capanna rivestito del tipico motivo decorativo geometrico in pietra bianca e rosa che è presente in numerosi edifici sacri cittadini come Santa Giuliana, San Francesco al Prato, Sant’Agostino e la Cattedrale. Nella parte superiore della facciata è presente un elegante rosone. Tale elemento , così frequente negli edifici romanico gotici umbri, è connotato di un ricco significato simbolico. Il suo aspetto richiama infatti l’immagine del Sole che, emblema di Cristo porta la Luce all’assemblea dei fedeli. Il rievocare poi l’elemento floreale nel proprio aspetto, fa si che il rosone possa essere considerato come un immagine simbolica della corte celeste. Come espresso da Dante Alighieri nella Divina Commedia, il Paradiso appare come una candida rosa dei beati le cui anime costituiscono i petali che abbracciano Dio che è al centro del mistico fiore.
Il doppio portale è costituito da due archi a tutto sesto che conservato le due preziose ante realizzate nel 1598 grazie alla munificenza di Suor Caterina e Suor Alessandrina Alessi. Vi sono rappresentati a destra San Francesco e San Bernardino, mentre a sinistra Santa Chiara e la Vergine Maria. A fianco della facciata vi è il robusto campanile, alla cui base vi è una piccola edicola il cui altare proviene dall’antico e perduto eremo del Favarone. Sopra di esso è posta un immagine raffigurante l’Incoronazione della Vergine, realizzata dal sacerdote-pittore Don Nello Palloni nel 1983, ispirato dall’affresco di analogo soggetto conservato nel coro delle monache della chiesa.
L’interno
Dell’antica struttura romanico-gotica all’interno rimane molto poco in quanto la struttura fu abbondantemente modificata tra il XVI e il XVII secolo. Testimonianza dell’antica struttura medievale è la fiancata della chiesa che dà in via del Giochetto, caratterizzata dalla presenza di undici contrafforti in arenaria e dalla presenza di sei monofore gotiche che in origine illuminavano la navata attraverso vetrate dipinte.
Frammenti della decorazione pittorica dell’antica chiesa sono tuttora visibile oltre che nel coro delle monache, anche nella prima cappella a sinistra, dove è riconoscibile una elegante immagine di Santa Lucia.
Lungo le pareti si aprono tre cappelle per ogni lato, le prime e le ultime a pianta quadrangolare mentre quelle centrali a pianta semicircolare. La decorazione figurativa al loro interno, intervallata da eleganti grottesche e candelabre, fu realizzata tra il 1602 e il 1606 e rappresenta uno dei più importanti cicli pittorici di gusto manierista-barocco a Perugia. Nonostante le fonti storiche abbiano attribuito l’intera decorazione murale a Francesco Vanni e Giovanni Maria Bisconti, attualmente gli storici dell’arte sono orientati a riconsiderare come determinante il contributo del pittore Matteuccio Salvucci, specie nella fluida e vivace resa paesaggistica e nella verve quasi caricaturale dei personaggi.
Probabilmente la realizzazione di questo ciclo di pitture fu preceduto anche da una progetto catechetico influenzato dal Convento di Monteripido che sin dal XV secolo era incaricato della cura spirituale del Monastero di Monteluce.
La decorazione delle pareti segue infatti una preciso schema secondo cui nella lentta di ogni cappella nella parte alta viene raffigurata una scena della Passione di Cristo con ai fianchi le immagini di due apostoli. Finte archittetture illusionistiche e festoni di frutta inquadrano le scene dipinte conferendo all’insieme una gusto già barocco. Figure di profeti, angeli e sibille in ogni cappella ribadiscono la continua comunicazione tra cielo e terra.
La lettura di questa catechesi per immagini presente nella chiesa di Monteluce inizia nella controfacciata, dove in elegante monocromo vi è raffigurata l’offerta di Abele a Dio e l’uccisione di Abele da parte del fratello Caino. Da questo sacrificio che prefigura il sacrificio di Cristo si passa ad osservare l’Ultima Cena, posta nella parte destra della controfacciata. Accurata e minuziosa è la resa dei particolari, come per esempio l’agnello arrostito posto sulla tavola o il gatto che furtivo si muove nei pressi di Giuda ed evoca la presenza del Maligno. Le pose ricercate ed innaturali e i colori acidi e dissonanti visibili in questo brano del ciclo pittorico sono l’espressione tipica di quell’arte di maniera rivolta in particolare alla pittura di Michelangelo e Raffaello.
La cappella dei santi anacoreti
La prima cappella a sinistra è dedicata ai santi anacoreti, ove si riconoscono le figure di San Romualdo, San Giovanni Battista, Santa Maria Maddalena e Sant’Antonio abate. Nella lunetta, circondata da festoni vegetali e inquadrata da una finta cornice architettonica inizia la storia della Passione di Cristo con la scena dell’Orazione nell’orto. Al centro della cappella vi è invece la scena con San Michele arcangelo che appare a san Lorenzo Maiorano vescovo. Tale episodio fa riferimento all’origine del celebre santuario a Monte Sant’Angelo ove nel 1222 lo stesso San Francesco, padre dell’Ordine delle religiose presenti in questa chiesa, si recò pellegrino.
La cappella dei martiri
La seconda cappella a sinistra è dedicata ai santi martiri ed ospita oggi il fonte battesimale. Nella lunetta è visibile la scena della Cattura di Cristo, mentre nella parte alta del nicchione vi è raffigurata una scena di guarigione operata dai Santi taumaturghi Cosma e Damiano che la tradizione racconta operassero l’attività medica gratuitamente. Nella parte inferiore sono visibili due sante martiri Santa Lucia e Santa Caterina d’Alessandria.
La cappella della Madonna
La terza cappella di sinistra è dedicata alla Madonna e nella lunetta vi è raffigurata una scena della Salita di Gesù al Calvario ove sono presenti vari momenti della Via Crucis, dall’incontro con Veronica, sino all’intervento di Simone di Cirene. Assieme alle figure dei quattro evangelisti che circondato Dio Padre benedicente raffigurato nel sottarco, sono presenti i quattro grandi padri della Chiesa: Sant’Ambrogio, Sant’Agostino, San Gregorio Magno e San Girolamo. La presenza dei Dottori della Chiesa come appendice alle figure degli Evangelisti sta qui a sottolineare come la Parola incarnata è alla base della confessione di fede, dell’annuncio e della comunità ecclesiale. Nella parte superiore della nicchia è visibile la scena della Nascita di Maria caratterizzata dal sapore intimo e familiare con cui viene resa l’atmosfera della stanza di Sant’Anna.
Sopra l’altare della cappella vi è la copia della tavola opistografa con l’Incoronazione di Maria oggi conservata al Museo Capitolare. Tale immagine è molto cara ai parrocchiani e ai perugini che la portano in processione per le vie della città in occasione della vigilia dell’Assunta.
Di tale manifestazione di fede abbiamo notizia sino dagli anni ’30 del 200 e ancora oggi è un momento molto sentito che contribuisce all’identità comunitaria del luogo grazie anche a tradizioni popolari come l’uso di distribuire in quell’occasione il basilico benedetto. Il basilico la pianta del re, come significa il suo nome in greco antico sta a significare come attraverso il battesimo ognuno è elevato a dignità regale e l’Assunzione di Maria indica il destino che attende l’umanità redenta.
Il presbiterio
Il presbiterio è ornato dalla pala d’altare raffigurante l’Assunzione e incoronazione della Vergine di Giovanni Silvagni del XIX secolo. La tela è racchiusa entro una ricca cornice lignea intagliata e decorata a finto marmo e foglia d’oro realizzata nel 1749. Si tratta di una copia dell’opera originale oggi conservata presso i Musei Vaticani, commissionata a Raffaello e realizzata dai suoi allievi Giulio Romano e Giovan Francesco Penni. Nel 1505 le monache clarisse di Monteluce manifestarono l’esigenza di possedere una pala per l’altare maggiore della chiesa e venne così contatto Raffaello che in città aveva già realizzato prestigiosissime opere. L’atto notarile fu così redatto e la somma pattuita con il Maestro fu di 30 ducati d’oro. Raffaello però era nel frattempo impegnato nel grande cantiere vaticano e la realizzazione della pala di Monteluce fu di continuo rimandata tanto che le monache di Monteluce inviarono anche il perugino Berto di Giovanni, discepolo di Perugino e tra i primi seguaci locali dell’Urbinate a Roma a sollecitare il Maestro.
Dopo la morte prematura di Raffaello, la tavola princiaple con l’Incoronazione della Vergine fu realizzata da due dei suoi allievi, Giulio Romano e Giovan Francesco Penni nel 1524-1525, sulla traccia del disegno del maestro. Nel 1797 i francesi si impadronirono dell’opera trasferendola in Francia, da dove ritornò nel 1815 grazie alla missione di Antonio Canova. Una volta rientrata a Roma la pala di Monteluce divenne parte del patrimonio artistico della Pinacoteca Vaticana e proprietà dello Stato Pontificio. Le monache di Monteluce ne chiesero la restituzione più volte, rifiutando anche le offerte economiche cospicue che venivano loro proposte dal Governo pontificio. Sarà infine nel 1830 che papa Leone XII concesse al monastero il pagamento di una forte somma di indennizzo e commissionò la copia del dipinto originale per la chiesa di Monteluce. L’opera realizzata da Giulio Romano e dal Penni si inserisce in modo superbo nella tradizione iconografica che Raffaello aveva sviluppato in questo tema. Il giovane Urbinate aveva già infatti realizzato proprio a Perugia una pala di anologo soggeto per la Cappella Oddi in San Francesco al Prato ove è visibile ancora tutto il suo legame con Perugino e una netta distinzione tra il mondo celeste e la realtà terrena. Nella Pala di Monteluce viene riproposta questa separazione ma tutti nuovi sono l’uso del colore più corposo e vivido, della plasticità che presume un contatto con l’arte di Michelangelo e della luce viva e scenografica che manifesta il mondo divino come un vero preludio dello stile Barocco.
Prima di passare alla parete destra è opportuno considerare come dalle opere degli eruditi perugini sette-ottocenteschi abbiamo testimonianza della presenza di un’iconostasi costituita da una struttura ad archi ove era inserita la grande pala con l’Incoronazione della Vergine e su cui vi era affrescata una Crocifissione di Giovan Battista Caporali, che risulta essere stata quindi il punto fermo su cui venne poi sviluppato il ciclo riguardante la Passione di Cristo sviluppato sulle pareti laterali e in controfacciata.
La cappella di San Francesco
A partire dalla prima cappella a destra, muovendoci dall’altare maggiore accanto alle consuete scene della vita di Cristo emerge con forza il riferimento alla storia dell’Ordine francescano. Nella prima cappella nella lunetta in alto è visibile la Deposizione nel sepolcro, ove la piccola pianta verde che spunta ai fianchi del sepolcro altro non è che un riferimento al Vita che sconfigge la Morte. Nella Parte inferiore ecco le immagini di numerosi santi dell’Ordine serafico, che a partire da Francesco, alter Crhistus, ha reso viva la Passione e Resurrezione di Cristo con la sua testimonianza. Al centro della Cappella vi è una grande Crocifissione tra angeli, la Madonna e San Giovanni Evangelista, che ospitava al centro un crocifisso ligneo, sul modello della tavola opistografica di Monteripido. Il Crocifisso trasferito nella chiesa di Sant’Erminio, fu sostituito per un ultimo periodo con il Crocifisso attribuito a Fiorenzo di Lorenzo collocato oggi nel presbiterio.
La cappella dei SS. Cosma e Damiano
La seconda cappella a destra è dedicata ai Santi Cosma e Damiano. Nella lunetta trova spazio la Resurrezzione di Cristo, mentre all’interno della nicchia trovano spazio tre episodi della vita di San Francesco. Al centro è visibile Francesco che è condotto di fronte al sultano, vero messaggio di pace che l’artista traduce con una vena quasi umoristica nei volti beffardi dei personaggi. A sinistra è visibile la scena del sacro cinvito di Francesco e Chiara, con un piccolo brano di natura morta in primo piano, in cui si riconoscono cibi molto semplici come frutta e legumi. Molto importante è la presenza nella cappella dei ritratti del Beato Egidio d’Assisi e del Beato Antonio Vici da Stroncone. Le due figure richiamano il rinnovamento promosso dagli Osservanti francescani che riportarono nel XV secolo al primitivo spirito francescano la comunità di Monteluce.
La cappella dell’Osservanza
L’ultima cappella sulla destra è detta dell’Osservanza e da essa oggi si accede alla sagrestia. Nella lunetta è raffigurata l’Ascensione di Cristo al cielo mentre al di sotto dell’arco vi è rappresentato Sant’Antonio e il miracolo della mula. Circondano l’episodio le raffigurazioni dei santi francescani delle origini e dei protagonisti della riforma osservante.
Ritornati con lo sguardo sulla parete di controfacciata il ciclo si conclude con la scena della Pentecoste quasi come una raffigurazione simbolica delle effusione dello Spirito Santo sui fedeli che guidati dalle immagini dipinte hanno ripercorso il mistero della vita di Cristo.
Chiara e le Povere dame
Chiara, figlia del nobile Favarone d’Offreduccio, nacque ad Assisi nel 1194. Probabilmente destinata ad un matrimonio imposto dalla famiglia per motivi politici, all’età di diciotto anni Chiara scappò nottetempo dalla casa paterna per rifugiarsi da san Francesco alla Porziuncola. Chiara aveva infatti di seguire l’esempio di Francesco affascinata dalla radicalità e profondità della sua scelta di vita. Rinunciò così alle sue ricchezze e alla sua beltà alttraverso il simbolo taglio dei capelli e dopo un breve periodo in cui visse in un monastero di monache benedettine a Bastia Umbra, Francesco nel 1215 le affidò la piccola chiesa di San Damiano da lui stesso ristrutturata. A San Damiano Chiara trascorse il resto della sua vita e ben presto attorno a lei si riunirono sempre più numerose giovani attratte dalle sue virtù e dal suo esempio di vita santa. Queste donne erano chiamate affettuosamente da San Francesco le Povere Dame e vivevano in rigida povertà, rinunciando a ogni proprio bene e rendita. Una vita di preghiera e carità quella di Chiara che scrisse anche una regola per le sue compagne e seguaci approvata nel 1228 da papa Gregorio IX e confermata nel 1253 da Innocenzo IV poco prima della morte di Chiara, avvenuta il giorno 11 agosto di quello stesso anno. Chiara con il suo esempio e la sua vita espresse nella carità l’interpretazione femminile e materna della spiritualità francescana occupandosi di frequente anche dell’aiuto a poveri e malati e la sua grandezza è inoltre aumentata dal fatto di essere stata la prima donna a redigere una regola religiosa per altre donne. Ancora oggi nella città di Perugia, gli insediamenti delle clarisse, (così l’ordine è chiamato in onore della fondatrice) sono presenti a Sant’Erminio ove è la comunità “erede” del convento di Monteluce e nel Monastero di Sant’Agnese in Porta Sant’Angelo.
PRIMA STATIO: LA CHIESA DI SANT’ANTONIO ABATE
La chiesa e il monastero
Pochi metri dopo aver oltrepassato la Porta medievale, ci troviamo in prossimità del complesso di Sant’Antonio abate, costituito dalla chiesa e dall’ex monastero.
All’esterno, sul fianco sinistro, su un rocchio di colonna natica è posta la scultura in pietra di un porcellino databile al secolo XV e molto consumata dalla devozione popolare.
Si ha documentazione dell’esistenza di questo luogo di culto già nel 1163 nel diploma imperiale con cui Federico II accolse sotto la sua protezione la Chiesa perugina. Inizialmente posta sotto il controllo dei Canonici della Cattedrale , nel 1285 fu istituita parrocchiale. Una fatto decisivo per la storia della chiesa e del Borgo fu quando agli inizi del XV vi si stabilirono i monaci dell’ordine ospedaliero di Sant’Antonio.
Nel 1624 subentrarono nella gestione del monastero i monaci Olivetani provenienti dal monastero di San Secondo sull’Isola Polvese. Furono gli Olivetani a ingrandire il monastero nel XVIII secolo come ricorda anche la presenza del loro stemma (tre piccoli monti con gli ulivi) sopra il portale d’ingresso. Sul finire del secolo il complesso passò alle dipendenze degli Olivetani di Montemorcino che lo gestirono sino al 1831 quando fu ceduto ai Camaldolesi che dopo pochi anni lo cedettero al clero secolare. Dopo essere stato abbandonato dai monaci il monastero fu adibito ad abitazioni civili come ancora oggi.
L’aspetto attuale della chiesa risente delle grandi modifiche attuate nel XVIII secolo che hanno cambiato anche l’orientamento dell’edificio, in origine perpendicolare a Corso Bersaglieri.
L’interno
L’interno è ad un’unica navata scandita in cinque campate da lesene. L’aula è coperta con volte a botte lunettate decorate con il motivo a cielo stellato da Gerardo Dottori. Il grande pittore futurista, legato per vincoli di parentela al parroco di Sant’Antonio Don Raniero Mastroforte, realizzò nel 1930 anche il grande affresco sulla parete di fondo, ove degli angeli si librano in volo sopra il paesaggio lacustre. Questa esaltazione del carattere mistico del paesaggio umbro avrà numerosi seguaci nel nostro territorio sino ai nostri giorni, in particolare grazie ad uno dei grandi protagonisti della pittura sacra perugina del nostro tempo il compianto Don Nello Palloni.
Al centro della parete di fondo vi è l’altare di legno dorato intagliato con un Crocifisso ligneo. In origine sull’altare vi era la tela raffigurante San Antonio Abate, opera del perugino Paolo Gismondi (XVII secolo) ora collocata nell’altare in stucco lungo la parete sinistra. Sulla parete destra vi è l’altare con la tela opera di Benedetto Bandiera raffigurante Santa Francesca Romana, fondatrice della congregazione delle Oblate di Maria. Tale istituzione di vergini e vedove era impegnata in una vita virtuosa e caritatevole e seguiva la regola monastica benedettina, a cui aerano associati i monaci Olivetani che risiedevano in Sant’Antonio.
Originariamente conservato in Sacrestia, oggi sulla parete destra del presbiterio è possibile ammirare, dopo un recente restauro, un lunettone raffigurante l’Eterno benedicente, collegato probabilmente alla tavola con Madonna e Santi, dipinta per l’altare della chiesa di San Secondo all’Isola Polvese da dove arrivarono i monaci Olivetani a Perugia. L’opera firmata da Sinibaldo Ibi è un chiaro esempio della vasta fortuna dei moduli di Perugin nella zona sino alla prima metà del XVI secolo. Nella controfacciata vi è l’antico organo realizzato nel 1654 da Angelo Mattioli e restaurato di recente.
In tempi recenti la comunità del Borgo ha fortemente cercato di recuperare il patrimonio di arte e devozione che per secoli ha animato questi luoghi, a partire dalle celebrazioni che ogni anno sono dedicate a Sant’Antonio Abate. In suo onore si svolgeva anche una luminaria e veniva portata in processione una stupenda statua lignea del XIV secolo raffigurante il Santo anacoreta barbuto con il mantello nero e la gruccia a forma di T simbolo del Tao, divenuto emblema degli Antoniti per le capacità taumaturgiche e terapeutiche del Santo.
I monaci olivetani
La congregazione olivetana (Congregatio Sanctae Mariae Montis Oliveti) è una congregazione monastica dell’Ordine di San Benedetto che si sviluppò a partire dall’esperienza eremitica di san Bernardo Tolomei nel XIII secolo. Appartenente ad una nobile famiglia senese, il suo nome di battesimo era Giovanni e fu educato dai domenicani presso Camporegio per poi laurearsi all’Univeristà di Siena. Ricoprì in seguito le cariche di giureconsulto, gonfaloniere delle milizie e capitano del popolo. Fu la guarigione da una dolorosa malattia che lo aveva reso temporaneamente cieco, a spingere Giovanni ad abbandonare la vita mondana ed a ritirarsi eremita nei pressi di Accona. Fu in seguito a questa scelta che decise di adottare il nome di Bernardo in omaggio al santo abate cistercense di Chiaravalle. Accanto al giovane senese si riunì bene presto una comunità e per evitare di confondersi con i gruppi di eretici dell’epoca, Bernardo si rivolse a papa Giovanni XXII per ottenere la sua approvazione. Il pontefice, che nel frattempo era ad Avignone affidò i monaci a Guido Tarlati, vescovo di Arezzo che fece adottare loro la regola si San Benedetto e il 26 marzo emanò la Charta fudationis del monastero della Vergine di Monteoliveto. Questo divenne nei secoli il principale insediamento della Congregazione dove operarono tra l’altro anche importanti artisti come Luca Signorelli. Dalle colline senesi il monachesimo olivetano si diffuse con rapidità in tutta l’Italia centrale: da Firenze, a Foligno, da Volterra a Roma. Grande fu l’influenza che tale congregazione esercitò sulla vita monastica nel XIV secolo e dettero anche luogo ad una fiorente scuola di ricamatori, miniatori e intagliatori. A Perugia si insediarono a partire dal 1366 sul colle di Montemorcino per volontà del cardinale Niccolò Capocci. Nel 1624, dal monastero di San Secondo sull’Isola Polvese, un gruppo di monaci si stabilì nel complesso di Sant’Antonio Abate occupando l’antico convento degli Antoniti; mentre nel 1740 la prima comunità olivetana cittadina si trasferì nel nuovo insediamento denominato di Montemorcino Nuovo, dove restarono fino al 1810, quando il governo francese lo destinò all’università. Con il ritorno al potere del Papa dopo la caduta di Napoleone, fu confermata tale destinazione d’uso, per cui ancora oggi l’antico insediamento degli olivetani è la sede del rettorato dell’Università degli Studi di Perugia.
SECONDA STATIO: L’ORATORIO DI SANT’ANTONIO ABATE
L’oratorio e la Confraternita
Tra le modeste case che si allineano lungo Corso Bersaglieri si inseriscono piccoli oratori, testimoni preziosi di quel tessuto sociale cittadino in cui l’elemento religioso contribuiva alla coesione e allo sviluppo di forme di collaborazione tra gli abitanti.
Ai numeri 90-92 sulla destra, si trova la semplice facciata dell’Oratorio di Sant’Antonio Abate.
La confraternita intitolata al patrono degli animali domestici fu una delle prime istituite a Perugia già nel XIII secolo, a dimostrazione di come nelle classi popolari il culto verso il protettore degli armenti fosse sentito come particolarmente importante. La confraternita gestiva qui il proprio ospedale di accoglienza che era collocato come molti altri lungo una delle vie d’accesso principali della città. Nel XVII l’ospedale fu soppresso e i suoi beni confluirono nell’Ospedale di Santa Maria della Misericordia; tuttavia la confraternita tuttavia continuò ad esistere e ricevette in questo secolo anche importanti lasciti.
L’interno
Fu soprattutto l’ingente somma ereditata dalla famiglia Bacarini nel 1680, che consentì la ristrutturazione e la committenza degli affreschi dell’oratorio nel XVIII secolo. Sontuosamente ornato era dunque l’interno di questo Oratorio, a differenza della sobria facciata, ma purtroppo di tale ricca decorazione non restano che poche tracce.
Gli affreschi che lo decoravano furono realizzati nel XVIII secolo, con ornati da Nicola Giuli e con figure di Francesco Appiani secondo il gusto teatrale e scenografico già sperimentato in numerosi edifici di culto cittadini. Le pitture sulla volta sono ancora leggibili e al centro di una quinta architettonica vi è raffigurata la Gloria di Sant’Antonio Abate. Alle pareti gli affreschi risultano in alcuni punti totalmente abrasi in quanto per molti anni l’Oratorio è stato adibito a deposito di legnami. Attualmente è sempre l’Associazione “Borgo sant’Antonio e Porta Pesa” che ha promosso dei lavori di restauro per recuperare questo ambiente e rendere possibile una migliore godibilità delle pitture in esso conservate.
TERZA STATIO: L’ORATORIO DI SAN GIOVANNI BATTISTA
Le origini e la Confraternita
Scendendo lungo Corso Bersaglieri, all’angolo con via della Formica incontriamo l’Oratorio di San Giovanni Battista.
La Confraternita di San Giovanni Battista fu fondata nel 1570 e approvata e sostenuta economicamente dai Vescovi Bossi e soprattutto Comitoli, grandi prelati della Chiesa Perugina nell’epoca della Controriforma. Tra i membri della Confraternita, numerosi furono quelli provenienti dalle nobili famiglie perugine come ad esempi i Ranieri e gli Oddi.
Inizialmente per le proprie funzioni i confratelli utilizzavano un altare nella chiesa di Sant’Antonio Abate per poi trasferirsi in questo ambiente nella parte inferiore del Borgo non lontano dal grande insediamento dei Serviti a Santa Maria Nuova. E’ significativo come nel Borgo posto sotto la protezione dell’anacoreta Antonio sia anche presente un luogo di culto dedicato a Giovanni Battista, primo anacoreta e modello di austerità e penitenza.
L’oratorio
All’esterno vi è una semplice facciata con una lapide che ricorda un intervento di restauro del 1705. L’interno è costituito da un’unica sala a pianta rettangolare scandita in due campate da paraste e coperta da una volta a botte. Le semplici decorazioni pittoriche risalgono al XIX secolo ed è possibile leggere la citazione in latino delle parole di San Giovanni riferite a Cristo: Ecco l’Agnello di Dio… Al centro dell’elegante macchina d’altare in legno dorato è collocato una singolare statua lignea che raffigura San Giovanni Battista bambino. I capelli dorati e lo sguardo giocoso e il sorriso creano un singolare rapporto con i classici attributi iconografici della vesta di pelle di animale e il bastone da viandante con la croce e il cartiglio. La raffigurazione di Giovanni quando ancora era un bambino non è affatto rara nell’arte occidentale e ed è un privilegio che solo questo santo ha. San Giovanni, infatti, è l’unico santo di cui si festeggia anche la nascita terrena (il 24 giugno) in quanto sobbalzando nel grembo di Elisabetta al saluto di Maria, Giovanni riconobbe subito che Essa portava in grembo il Salvatore del Mondo Gesù Cristo. Per questo dunque Giovanni bambino è spesso raffigurato come una vero precursore, colui che seppe sin dal ventre materno riconoscere la Verità e indicarla agli altri.
Proseguendo il cammino si giunge in uno dei luoghi più popolari della città, in prossimità dello slargo di Porta Pesa. E’ questo il nome con cui i perugini chiamano questo luogo in cui anticamente vi era la porta daziaria, ove si pesavano le merci introdotte in città per pagare poi il tributo. L’ Arco in arenaria che immette in via Pintoricchio, prende il nome dalla famiglia Tei che nei pressi risiedeva e di fronte ad esso si eleva imponente la mole della chiesa di Santa Maria Nuova
QUARTA STATIO: LA CHIESA DI SANTA MARIA NUOVA
La chiesa
Questo imponente complesso monastico rappresenta uno dei luoghi più significativi del patrimonio artistico cittadino nonché delle sue vicende storiche.
La presenza in questo luogo di una chiesa appartenente ad una piccola comunità di monaci benedettini è documentata a partire dal 1285. Tale insediamento, fu abbandonato poi nel 1372 in seguito alla costruzione della fortezza che l’abate Gerardo Du Puy fece realizzare sul Colle del Sole, immediatamente al di sopra dell’antico edificio. L’abate, è noto più comunemente con il nome di Abate di Monmaggiore, in base al fatto che deteneva il titolo di abate di Marmoutier detto anche il Monastero Maggiore. Esso fu governatore di Perugia tra il 1373 e il 1375 per conto di papa Urbano V e con pugno di ferro cercò di sottomettere la città al suo potere facendo realizzare un imponente fortificazione sul punto più elevato della città. Tale costruzione, fu eretta da Matteo Gattaponi, che a Gubbio aveva realizzato l’imponente complesso di Palazzo dei Consoli e si estendeva tra porta Sole e il colle di Monteluce. I perugini approfittando del movimento di ribellione nelle terre della Chiesa istigato da Firenze, il 7 dicembre 1375 costrinsero alla fuga il Monmaggiore e distrussero la fortezza, di cui oggi sono visibili i grandi arconi di sostegno dal belvedere di via delle Prome. Gravi furono i danni che l’antica chiesa di Santa Maria subì in questo periodo così turbolento della storia cittadina.
I monaci Silvestrini
Fu nel 1404 che grazie al sostegno di Braccio da Montone, la chiesa fu affidata ai padri Silvestrini che ne curarono la ricostruzione in eleganti forme gotiche e la chiesa assunse così il titolo di Santa Maria Nuova. Venne modificato in primo luogo l’originario orientamento dell’edificio, così che il corpo longitudinale originario divenne il transetto.
La Congregazione Silvestrina attiva ancora oggi, è uno dei molti rami dell’ordine di San Benedetto e fu fondata da San Silvestro da Osimo nel 1248. La sua spiritualità risulta particolarmente incentrata ancora oggi sulla solitudine, l’austerità e la semplicità. A differenza degli altri rami dell’ordine però, i Silvestrini hanno assunto sin dalle origini l’impegno di gestire parrocchie e tale elemento risulta estremamente importante visto che la loro presenza a Perugia si collocò in un’area che era oggetto di un generale riassetto urbano in seguito alla distruzione della fortezza di Porta Sole.
La “guerra del sale”
Nel 1540, la sconfitta dei Perugini nella cosiddetta “Guerra del Sale”, contro il papa Paolo III fu all’origine di un radicale cambiamento del panorama urbano con la costruzione della Rocca Paolina sul Colle Landone. Oltre ai sontuosi palazzi dei Baglioni, ad essere sacrificata per la realizzazione della nuova fortezza fu anche una delle più ricche e importanti chiese della città: Santa Maria dei Servi.
Collocata proprio di fronte ai Palazzi di Braccio e Malatesta Baglioni, la chiesa e il suo convento, beneficiavano della protezione e del sostegno delle ricche famiglie perugine e conservavano un prezioso patrimonio di opere d’arte. I Padri Serviti per ordine del Cardinale di Rimini il 4 novembre 1542 furono dunque costretti ad abbandonare la loro sede, e si trasferirono nella parrocchia di Santa Maria Nuova. I Silvestrini a loro volta furono trasferiti nella vicina chiesa di San Fortuno nei pressi dell’Arco di Augusto.
La chiesa e il convento vennero restaurati e ampliati e vi confluirono moltissime opere d’arte provenienti dalla perduta chiesa sul Colle Landone.
Le modifiche
Della precedente struttura gotica restano visibili all’esterno, lungo il fianco sinistro, un portale e due arcate ogivali e all’interno, l’abside centrale eptagona e le cappelle di testata delle navate minori. Importanti affreschi del XV secolo attribuiti a Lazzaro Vasari, bisavolo di Giorgio, sono riemersi nel 1961 in seguito a restauri nella cappella in fondo alla navata di sinistra.
A partire dal XVI secolo profonde modifiche interessarono la chiesa e il suo apparato decorativo; sontuosi stucchi rivestirono le navate eliminando la tradizionale copertura a capriate lignee, diminuendo la luminosità dell’ambiente e frenando lo slancio verticale di schietta impronta gotica che prima caratterizzava l’ambiente. Tra il XVII e il XVIII secolo artisti come Giovan Francesco Bassotti, Stefano Amadei, Giovanbattista Mazzi e Francesco Appiani realizzarono gli affreschi della navata maggiore, quelli sui pilastri e sugli intradossi degli archi, tutti caratterizzati dall’uso di tonalità calde e dall’impostazione classica.
La volta a botte della navata centrale reca al centro il simbolo dell’ordine dei Serviti mentre le Virtù cristiane sono raffigurate come eleganti figure femminili distese sopra gli intradossi degli archi a tutto sesto che introducono nelle navate laterali.
Del ricchissimo patrimonio artistico recano però testimonianza soprattutto i sontuosi altari che si allineano lungo le navate laterali. Il primo, entrando sulla destra è opera di Vincenzo Roscino ed ospita un prezioso Crocifisso quattocentesco proveniente da Santa Maria dei Servi.
Oratorio della Confraternita del Crocifisso
Più avanti è possibile accedere all’Oratorio della Confraternita del Crocifisso, sorta sotto impulso del vescovo Napoleone Comitoli nel XVII secolo. La volta è decorata con finte architetture prospettiche realizzate da Pietro Carattoli, mentre al centro vi è La Gloria della Croce di Antonio Maria Garbi. L’altare fu eseguito su progetto dell’architetto Valentino Martelli e ospita la splendida Deposizione di Felice Pellegrini del 1593.Questo dipinto è la copia di quello eseguito dal maestro Federico Barocci per la Confraternita della Croce e del Sacramento a Senigallia e attesta la grande fortuna goduta dal pittore urbinate nell’ambiente perugino. Il Barocci, che a Perugia lasciò due grandi capolavori, la Deposizione in Cattedrale e la Madonna della Ciliegia nella Chiesa del Gesù, incarnava perfettamente un’arte intrisa di nuova spiritualità ed emotività come sostenuto dal Concilio di Trento. La sua attività a Perugia influenzò in maniera decisiva l’ambiente artistico cittadino, subentrando alla fine del XVI secolo ai moduli raffaelleschi che avevano imperato nei decenni precedenti.
E’ una religiosità profonda ma pacata quella che anche il Pellegrini esprime in quest’opera, dove è particolarmente studiato il rapporto spaziale tra i personaggi in modo da sottolineare la centralità della figura di Cristo.
Altare del Gonfalone
Ritornati nella navata destra, si può ammirare il sontuoso altare del Gonfalone. All’interno della cornice dorata vi è conservato il gonfalone processionale dipinto da Benedetto Bonfigli per la Confraternita di San Benedetto che aveva sede nell’attuale via del Roscetto proprio in prossimità della chiesa di Santa Maria Nuova. L’opera del Bonfigli è un esempio tipico di questo particolare genere di pitture che a Perugia tra il XV e il XVI secolo erano molto popolari e venivano utilizzati nelle cerimonie religiose spesso organizzate per scongiurare la fine di un epidemia. Imponente è la figura di Cristo, la quale occupa gran parte del dipinto e si erge come Giudice armato di frecce in atto di scagliarle contro il popolo di Perugia.
Il presbiterio
Entrati nel presbiterio, sulla parete destra vi è l’Altare degli Oltremontani, vero capolavoro della scultura lignea del XVI secolo. Questa imponente costruzione si trovava precedente in Santa Maria dei Servi nella cappella della “Sociatas Teotonorum e Gallicorum”, confraternita religiosa che raggruppava i fedeli provenienti dalla Francia e dall’area tedesca presenti a Perugia. A protezione delle due importanti comunità, erano poste nelle nicchie laterali dell’altare le statue di San Luigi di Francia e Sant’Enrico di Germania. Al centro dell’altare vi è oggi la tela di Bernardino Gagliardi (XVIII secolo) con sant’elena che adora la Croce. Sulla parete di fondo della cappella absidale destra è ancorato il sarcofago di legno e broccato in cui sono custodite le spoglie di Braccio Baglioni, capostipite della famiglia perugina che dominò la città tra il Quattrocento e il Cinquecento. Il manufatto fu probabilmente realizzato in occasione del trasferimento delle sue spoglie da Santa Maria dei Servi quando andò distrutto il suo primitivo sepolcro.
Al centro del presbiterio dal 1914, al posto dell’antico altare gotico sul quale era posto il Polittico dei Silvestrini di Fiorenzo di Lorenzo (oggi alla Galleria Nazionale dell’Umbria), vi è un altare settecentesco proveniente dalla chiesa di San Francesco al Prato. Nell’abside venne ricollocato invece nel XVI secolo il coro ligneo proveniente da Santa Maria dei Servi. Realizzato da Paolino da Ascoli e Giovanni da Montelparo, è il coro più antico della città, caratterizzato ancora da un linguaggio gotico nonostante la perdita del coronamento con cuspidi, rosoni e pinnacoli.
Navate laterali e controfacciata
Nella cappella di testa della navata sinistra un tempo era collocato all’interno di un elegante altare il Gonfalone dei Legisti opera del 1466 di Niccolò Alunno, al cui posto oggi vi è la tela di Francesco Appiani La Vergine in gloria fra il Battista e i santi Filippo Neri e Filippo Benizi.
San Filippo Benizi e santa Giuliana Falconieri, figure centrali dell’Ordine dei Servi di Maria risultano presenti anche nell’ altare successivo ove campeggia un’elegante tela opera del pittore manierista Silla Piccinini. Scendendo lungo la navata si trova l’altare dei Sette fondatori, dodicato appunto ai sette iniziatori dell’ordine dei Serviti. Al di sopra di esso è visibile una Madonna fra i santi Girolamo e Francesco di Giuseppe Carattoli. Questo dipinto, è una copia dell’originale opera di Perugino commissionata nel 1507 dagli eredi di Giovanni Schiavone per la propria cappella nella chiesa di Santa Maria dei Servi. Comprata nel 1821 dalla famiglia dei Della Penna fu poi venduta alla National Gallery di Londra dove ancora è conservata. Nella chiesa erano presenti anche altre due opere di Perugino tra cui l’Adorazione dei Magi che i Baglioni fecero realizzare per Santa Maria dei Servi che dopo diversi spostamenti lasciò definitivamente questa chiesa nel 1863 e oggi è conservata alla Galleria Nazionale dell’Umbria. Sempre nella medesima sede museale è conservata la Pala Signorelli eseguita nel 1517 per la nobile perugina Andreana Signorelli e collocata in origine sull’altare della Cappella Graziani in Santa Maria dei Servi.
Sulla controfacciata infine è visibile lo splendido organo realizzato da Marco Pace, uno dei migliori scultori in legno del tardo Cinquecento a Perugia. Il disegno dell’imponente strumento fu realizzato da Bino Sozi, mentre la vivace decorazione pittorica è opera di Matteuccio Salvucci.
Il campanile
Usciti da Santa Maria Nuova e ritornati in via del Roscetto, lo sguardo è catturato dall’elegante campanile della chiesa, realizzato nel XVII secolo su disegno dell’architetto perugino Galeazzo Alessi. Pochi passi ci separano ora da uno dei luoghi più significativi della vita religiosa dei laici perugini nei secoli passati.
QUINTA STATIO: L’ORATORIO DI SAN BENEDETTO
L’oratorio
La Confraternita disciplinata di San Benedetto risulta esistente sin dal 1320, risultando quindi tra le più antiche della città sorta anch’essa probabilmente in seguito al grande fervore religioso che in quegli anni coinvolgeva la popolazione cittadina specie in seguite alle esperienze portate avanti da Raniero Fasani e al movimento penitenziale dei flagellanti.
Un riferimento chiaro a questa spiritualità è ben visibile a tutt’oggi sul portale in travertino dell’Oratorio della Confraternita ove sono raffigurati due flagelli. Specie in occasione di gravi pestilenze era infatti usuale che i membri di queste associazioni percorressero flagellandosi, pregando e cantando le vie cittadine. Per tali manifestazioni nel 1471 venne commissionato il Gonfalone dipinto da Benedetto Bonfigli conservato in Santa Maria Nuova.
Oltre che dell’Oratorio, la Confraternita di San Benedetto era anche titolare di un ospedale per l’assistenza ai pellegrini, poveri e bisognosi.
L’aspetto attuale dell’Oratorio è frutto del restauro realizzato da Valentino Martelli nel 1598.
L’interno
All’interno di grande importanza sono i preziosi affreschi della volta realizzati da Matteuccio Salvucci nel 1610. L’opera risulta essere una delle più eleganti creazioni del manierismo perugino, ove l’artista ha con maestria sviluppato il tema della decorazione a grottesca con una vena caricaturale e particolari naturalistici di chiara ispirazione fiamminga.
Al centro della volta vi è raffigurato lo Spirito Santo in forma di colomba circondato da angeli incastonati in un elaborata cornice. Vivaci episodi narrativi relativi alle Storie di san Benedetto, Ercolano, Costanzo, sono presenti all’interno del fitto tessuto decorativo. Le decorazioni delle lunette, sono opera dei perugini Giovanni Francesco Bassotti e Giovanni Battista Mazzi e raffigurano degli episodi tratti dal Libro della Genesi. Particolarmente interessante è la scena in cui Dio vieta ad Adamo ed Eva di nutrirsi del frutto dell’Albero della conoscenza del Bene e del Male. La figura di Dio Padre con gesto eloquente indica infatti ai progenitori la morte distesa a Terra come conseguenza del loro allontanamento da Dio. Nella parete dell’altare all’interno di una ricca cornice in stucco vi è la riproduzione dell’originale pala di Eusebio da San Giorgio, allievo del Perugino, conosciuta come Madonna degli alberelli. La pala raffigura la Madonna in trono con ai lati San Giovanni Battista (in linea con l’aspetto penitenziale della religiosità della Confraternita) e il titolare San Benedetto.
SESTA STATIO: LA CHIESA DELLA COMPAGNIA DELLA MORTE
La Compagnia della Morte
Fondata nel 1570, la Compagnia della Morte aveva il compito di seppellire i defunti privi di mezzi o che non avevano nessuno che potesse provvedere alla loro sepoltura. Tale compito, rispondeva in primo luogo ad uno dei più importanti aspetti della Misericordia cristiana e in più era fondamentale anche per l’igiene e l’ordine pubblico.
La costruzione della chiesa
In mancanza di una sede fissa, all’inizio i confratelli cominciarono dapprima a riunirsi nella chiesa del Gesù ma dal 1575 si adoperarono per la costruzione di un proprio edificio sul luogo dell’antica parrocchiale di Santa Lucia. Vennero reperiti i fondi per i lavori in parte con contributi volontari, con multe ai membri che non partecipavano alla questua, con i trasporti, con i trasporti funebri e in parte con le elemosine ottenute durante l’adorazione eucaristica delle Quaranta ore ogni penultima domenica del mese.
L’esterno
Realizzata secondo il progetto di Vincenzo Danti e Bino Sozi, l’esterno della chiesa presenta un architettura severa disegnata da paraste in doppio ordine che inquadrano un ricco portale manierista del 1606. Sopra di esso è posto in basso lo scudo con il Grifo, emblema comunale e al di sopra gli stemmi di papa Clemente VII, del Cardinale Bevilacqua e del prelato Maggi.
L’interno
Elegante e ricercato appare al contrario l’interno, a croce greca e con la cupola, originariamente semisferica, poi racchiusa in una struttura poligonale in laterizio per evitare le infiltrazioni d’acqua. Ricche sono le decorazioni barocche che adornano le pareti, ma l’opera più notevole è senza dubbio il sontuoso altare maggiore, dominato dalla Pala d’Ognissanti di Vincenzo Pellegrini. L’allievo del Barocci, con grande chiarezza compositiva e splendidi giochi di luce e colore illustra il passaggio dal Purgatorio al Paradiso da parte delle anime dei defunti grazie alla preghiera della Chiesa. Straordinaria è la figura centrale che rappresenta un anima nuda che viene sollevata nei Cieli da un angelo, quasi come se si tratti di un bambino uscito dal grembo materno verso una nuova vita. Una schiera di santi assiste alla scena e sostiene con la preghiera le anime purganti.
Dopo aver ammirato questa preziosa icona che ci parla delle realtà ultra terrene, ecco che possiamo finalmente indirizzarci verso la Cattedrale che come madre ci accoglie nel suo abbraccio segno di Misericordia.
ALTRI LUOGHI DI INTERESSE
A. LA CHIESA DEI SANTI SIMONE E GIUDA
Le origini
Nel 1032 i padri Carmelitani, già presenti a Perugia, ottenuta licenza dal Papa Benedetto IX di vendere il convento di S. Maria della Valle nel quale risiedevano, edificarono il nuovo convento di S. Simone, primitivo nucleo del complesso conventuale del Carmine. Nel 1297 essi ottennero di ampliare il convento e lo ricostruirono sotto il titolo dei Santi Simone e Giuda. La chiesa è documentata come parrocchiale a partire dal 1285 ma nel 1377 fu fatta interamente ricostruire dai Carmelitani anche con il reimpiego delle pietre provenienti dal Cassero di S. Antonio (fortificazione collegata alla prima fortezza fatta costruire dal legato papale Abate del “Monmaggiore”). Interessanti resti dell’edificio medievale sono visibili lungo il fianco di via Abruzzo ove è riconoscibile una cappella gotica con monofora in travertino.
Le modifiche
A metà Ottocento l’edificio ha subito un totale rifacimento interno che ha cancellato la decorazione parietale dei secoli precedenti (XVIXVII-XVIII sec.). Artefici del progetto furono: lo scenografo pittore perugino Vincenzo Baldini e il suo allievo Giovanni Panti in collaborazione con il “figurista” Mariano Piervittori. L’opera nell’insieme, costituisce una rara testimonianza della pittura purista ispirata al classicismo tardo cinquecentesco e in particolare a Raffaello e Barocci. Vi sono rappresentati nella parete dell’abside: i Quattro Evangelisti, S. Alberto patriarca di Gerusalemme estensore della regola dei Carmelitani e il martire carmelitano S. Angelo di Gerusalemme. Nella calotta absidale campeggia il profeta Elia, ispiratore dell’Ordine e il suo discepolo Eliseo. Alle pareti della navata si ammirano altri quattro santi carmelitani.
Sulla contro-facciata troneggia un organo del 1602, commissionato dalla nobile famiglia Della Corgna, che reca dodici statuette dei Santi dell’ordine carmelitano, intagliate, di gusto tardo-manieristico. Era nella chiesa la Madonna dell’orchestra, dipinta per i Carmelitani dal marchigiano Giovanni Boccati (XV sec.); inoltre opere di Domenico Alfani (XVI sec.) e Antonio Maria Fabrizi (XVII sec.), tutte oggi musealizzate nella Galleria Nazionale dell’Umbria. Il convento (XIV sec) fu demanializzato dopo il 1860, divenne poi Scuola Materna S. Croce, la prima scuola in Italia che ha utilizzato il metodo Montessori, da cui il nome via dell’Asilo.
Il Gonfalone della Madonna del Carmine
La chiesa conserva al suo interno il Gonfalone della Madonna del Carmine, attribuito alla scuola di Benedetto Bonfigli, che nella sua composizione appare molto diverso dagli altri gonfaloni processionali presenti in città. La pittura riprende infatti l’iconografia fiorentina della “Madonna dell’umiltà “( la Madonna è seduta nel cuscino, in un prato fiorito, anziché nel trono) unico esempio in un gonfalone umbro. I personaggi a destra del dipinto sono stati identificati da F. Mancini in : S. Alberto Patriarca di Gerusalemme, papa Innocenzo III , Enrico VI Imperatore del Sacro Romano Impero (padre di Federico II di Svevia) e un gruppo di frati carmelitani. Questa immagine è stata oggetto di grande devozione popolare, tanto che fino al secolo scorso ogni cinque anni veniva portata in processione il 16 luglio. Ancora oggi si celebra nella comunità parrocchiana la festa della Madonna del Carmelo, anche se recentemente non in questa chiesa, perché inagibile, ma nella vicina S. Maria Nuova.
I Carmelitani
L’Ordine mendicante dei frati della Beata Vergine del Monte Carmelo è un istituto religioso maschile di diritto pontificio. Sorto sul Monte Carmelo in Palestina nell’XI secolo come ordine eremitico contemplativo, si stabilì poi in Occidente dove fu incanalato nel tipo dei mendicanti, ai quali fu definitivamente assimilato nel 1317. Le origini dell’ordine sono comunque piuttosto oscure. Anche se la tradizione ne fa risalire l’origine al profeta Elia, prototipo e modello degli eremiti e dei contemplativi, legato al Monte Carmelo dall’episodio biblico della sfida ai profeti di Baal, esso sorse verso la fine del XII secolo a opera di una comunità di eremiti stabilitasi in Galilea in seguito alla prima crociata.Giacomo di Vitry, agli inizi del Duecento, riferisce che essi “ad esempio e imitazione del santo e solitario uomo Elia, presso la fonte che di Elia porta il nome” abitavano in un alveare di piccole cellette “come api del Signore, producendo dolcezza spirituale”. La chiesa della comunità era dedicata a Maria e, per distinguerli dai religiosi greci del vicino monastero di Santa Margherita, gli eremiti erano detti “frati della Beata Vergine Maria”. Alberto, patriarca latino di Gerusalemme residente in San Giovanni d’Acri, tra il 1206 e il 1214 diede alla comunità la sua prima “formula di vita”, conforme a un propositum manifestato dagli stessi eremiti che intendevano dare una forma canonica ed ecclesiastica alla vita che conducevano. Esistono solo copie tarde e di dubbia autenticità del testo di questa prima regola. Essa, comunque, aveva un carattere eminentemente spirituale e non costituiva un codice di prescrizioni formali: il tenore di vita era incentrato nella ricerca della solitudine, sia collettiva che individuale, al fine di ottenere l’unione con Dio mediante la preghiera. Dal punto di vista dell’organizzazione esterna della vita religiosa, si prescriveva che gli eremiti vivessero in un spazio recintato, all’interno di celle tra loro separate raccolte attorno a un oratorio comune dove celebrare, anche quotidianamente, la messa. A causa delle restrizioni poste dal Concilio Lateranense IV alla fondazione di nuovi ordini religiosi, gli eremiti del Carmelo chiesero al pontefice la conferma della loro regola, concessa da papa Onorio III il 30 gennaio 1226. Per i crescenti pericoli legati all’avanzata degli arabi in Terra santa, nel corso del Duecento i carmelitani furono costretti a trasferire le loro comunità in Occidente (Cipro, Sicilia, Francia meridionale, Inghilterra): dalla Terra santa l’ordine fu del tutto sradicato nel 1291, alla caduta del regno latino di Gerusalemme, con la perdita dei conventi del Carmelo, di Accon e di Tiro. Giunti in Occidente, ai carmelitani fu impossibile continuare a condurre lo stesso stile di vita tenuto in Palestina e il capitolo generale dell’ordine chiese al pontefice un adattamento della regola: servendosi di due domenicani, papa Innocenzo IV riformò la regola e l’approvò con la bolla Quae honorem Conditorem del 1º ottobre 1247. Con l’adattamento della regola, il papa incanalò l’ordine verso il tipo dei mendicanti: le prescrizioni relative al silenzio, al digiuno e all’astinenza vennero attenuate; furono rafforzati gli elementi cenobitici (celle contigue e non più separate, refettorio comune, recita corale dell’ufficio divino) e si diede ai carmelitani il permesso di stabilirsi all’interno di paesi e città. A Perugia,oltre al potente insediamento posto nel rione di Porta Sole, in seguito alla riforma dell’ordine, promossa da San Giovanni della Croce e santa Teresa d’Avila nel secolo XVI, si insediò la comunità dei Carmelitani Scalzi nel rione di Porta Santa Susanna.
C. LA CHIESA DI SAN FIORENZO
Le origini
Costruita sul luogo dove già nell’VIII secolo vi era un edificio intitolato al santo martire perugino, dal XI secolo la chiesa fu gestita dai monaci cluniacensi di San Salvatore di Monte Acuto, (l’attuale Abbazia di Montecorona). Nel 1234, quando l’abbazia di San Salvatore divenne cistercense, anche il complesso di San Fiorenzo passò anch’esso sotto la proprietà dei seguaci di San Bernardo. A San fiorenzo dalla fine del XIII secolo sino al 394 vi si insediarono i monaci Camaldolesi che in Perugia già avevano una loro importante comunità a San Severo sul Colle del Sole. Successivamente la chiesa passò poi alla Congregazione Cistercense del Corpo di Cristo e nel 1444 ai Serviti, che ampliarono la chiesa e il convento grazie anche al finanziamento dei lavori da parte del Comune perugino.
Il rifacimento
Della costruzione gotica realizzata in quegli anni, non rimangono che pochissime tracce alla base della torre campanaria e in locali adiacenti la chiesa che fu interamente rinnovata nel 1770 su disegno di Pietro Carattoli. I progetti dell’architetto perugino, comportarono la creazione di uno spazio dominato da pesanti forme neoclassiche, adornate di bassorilievi in stucco con angeli e motivi vegetali. Sull’altare della famiglia Ansidei, il cui palazzo nobiliare si trova nella vicina via Alessi, era esposta sino alla metà del Settecento la splendida pala d’altare con la Madonna con il Bambino tra San Giovanni Battista e San Nicola di Bari, dipinta da Raffaello nel 1505 circa. Sciaguratamente l’opera fu venduta nel 1746 a Lord Robert Spencer, il quale successivamente la vendette al duca di Marlborough. Quest’ultimo cedette il prezioso dipinto nel 1885 alla National Gallery di Londra dove tuttora è conservato. La vendita del dipinto di Raffaello fu effettuata con tutta probabilità per finanziare i lavori di ricostruzione della chiesa progettati da Carattoli.
L’interno
Appena entrati in chiesa, lungo la parete destra vi è una tela di Francesco Appiani (XVIII sec.) raffigurante San Pellegrino sorretto da un angelo e il Beato Giovanni Porro. Subito dopo sul secondo altare si trova una copia del XVIII secolo della Pala Ansidei di Raffaello. Sull’altare del transetto destro, riccamente decorato a scagliola, vi è il gonfalone realizzato da Bonfigli per la Confraternita dei Santi Simone e Fiorenzo in occasione della peste del 1476. Insolita è la presenza di piccoli episodi a mo’ di predella sotto la scena principale e anche il lungo cartiglio retto dall’angelo con scritto un lungo rimprovero rivolto al miscredente popolo perugino. Nel Gonfalone è inoltre presente San Filippo Benizi, santo venerato dai Servi di Maria che a quell’epoca reggevano la chiesa di San Fiorenzo. Al centro del presbiterio, entro una nicchia circondata da un sontuoso panneggio di stucchi barocchi in cui si librano leggeri gli angeli vi è l’immagine della Vergine con il Bambino, del XIV secolo, staccata nel 1646 dal vicino vicolo della Madonna e qui collocata nel 1770. Nel transetto di sinistra vi è il prezioso organo opera di Morettini e sull’altare una tela di Francesco Silva con la Vergine e i sette santi fondatori dell’ordine dei Serviti. Nella chiesa fu sepolto il più importante architetto perugino del Cinquecento, Galeazzo Alessi, nato nella vicina via Cartolari nel 1512, il cui monumento funebre composto nel 1960 è collocato nel transetto sinistro. Molto importante dal punto di vista artistico è la sacrestia, ove si conservano gli affreschi con Storie della vita di San Fiorenzo realizzati da Matteuccio Salvucci e Antonio Maria Fabrizi, che rappresentano uno dei cicli più interessanti del manierismo perugino.
San Fiorenzo
Ricostruire la vicenda storica di Fiorenzo appare assai arduo in quanto le fonti che possediamo tutte tarde e approssimative spesso cadono anche in contraddizione tra di loro. Lo straordinario lavoro storico dell’ultimo parroco di San Fiorenzo don Mario Moretti (ora la chiesa è utilizzata dalla comunità ortodossa rumena), ha messo a confronto in modo puntuale e rigoroso le principali testimonianze relative alla storia del santo. In particolare si fa riferimento all’opera di una anonimo Bollandista gesuita, e agli scritti di Jacobilli e Pompeo Pellini. Pur nella loro semplicità risulta essere estremamente importanti poi gli affreschi della sacrestia della chiesa che risulta una traduzione in pittura della vita di Fiorenzo riportata dallo Jacobilli.
Fiorenzo, consigliere e segretario del prefetto di Roma Valeriano, è inizialmente anche lui coinvolto nelle persecuzioni contro i cristiani, ordinate dall’imperatore Decio. Saranno probabilmente, come riportano le fonti, la costanza e l’eroismo dei cristiani a mettere in crisi il giovane, che la tradizione popolare ha sempre immaginato come un soldato, anche se di questo non ci sono prove. Fiorenzo si convertirà alla religione cristiana ricevendo il Battesimo e la Confermazione da papa Cornelio I. La conversione di Fiorenzo coinvolse anche suoi compagni e lo spinse a disfarsi dei suoi beni dandoli ai poveri. In breve il giovane venne arrestato ma inutili risultarono i tentativi di abiura che, attraverso minacce e promesse, l’autorità cercava di fargli professare. Condotto a Perugia dal Console di Toscana, a Fiorenzo viene chiesto di sacrificare agli dei pagani ma per tutta risposta egli farà cadere distruggendola la statua di Saturno, sputandogli in faccia. Tale comportamento significa morte per lui, non prima di aver subito durissime pene che nei documenti vengono riportate con tono quasi enfatico. Alla fine Fiorenzo il 05 giugno del 253 venne decapitato in una località boscosa nei pressi di Perugia su un colle chiamato dalle fonti Monte Tirreno (probabilmente in riferimento a vestigia etrusche presenti, gli Etruschi erano infatti chiamati anche Tirreni). Su questo luogo sorgerà a detta del Mariotti già nel 700 d.C. una chiesa che avrebbe poi preso il titolo di Santa Maria di Monterone (corruzione questa dell’antico toponimo), edificio dipendente dalla cittadina chiesa di san Fiorenzo, ove il corpo del santo martire è ancora conservato dopo esservi giunto intorno al IX secolo, seguendo un itinerario non troppo diverso dai resti mortali del vescovo Sant’Ercolano. Nel 1632 San Fiorenzo fu solennemente proclamato compatrono della città di perugia, nell’ambito del recupero della spiritualità cristiana delle origini e della creazione del culto di nuovi santi promossa in città durante la Controriforma.
D. LA CHIESA DEL GESU’
Le origini
Costruita grazie alle generose elargizioni del cardinale Fulvio della Corgna, essa andò ad occupare l’area in cui insisteva l’antica chiesa di Sant’Andrea, la cui abside, sospesa nel vuoto è ancora visibile dalla terrazza del Mercato Coperto e della Compagnia del SS Salvatore. La chiesa fu consacrata con grande solennità il 7 ottobre 1571 e nel 1620 fu ampliata con l’aggiunta della crociera. La realizzazione del complesso dei Gesuiti a così breve distanza dalla sede del potere cittadino e dalla Cattedrale, è legata alla politica della Chiesa in seguito al Concilio di Trento. I nuovi ordini religiosi avevano un ruolo fondamentale nella riforma cattolica e i Gesuiti in particolare esercitarono un’attività importante in particolare nel campo della cultura. Rapidamente la Compagnia estese i propri possedimenti a valle del Sopramuro e verso la piazza, ove furono successivamente costruiti il collegio e la scuola. Due anni dopo la soppressione dei gesuiti avvenuta nel 1773 i barnabiti entrarono in possesso della chiesa, della scuola e del convento, trasferendosi dalla loro sede precedente nei pressi di Sant’Ercolano. La facciata dell’edificio, rimasta incompiuta all’altezza della cornice del primo piano, fu completata nel 1934 sulla base del dipinto di Pietro Malombra che raffigura il cardinale Fulvio della Corgna in atto di consegnare ai Gesuiti il modello della loro chiesa.
L’interno
L’interno, a tre navate è stato purtroppo gravemente danneggiato nel 1989 da un incendio che ha distrutto gran parte del prezioso soffitto a lacunari intagliati e dorati eseguito nel XVI secolo da Marco Pace e Girolamo Bruscatelli. Un tempo ricchissima di opere d’arte la chiesa di impoverì notevolmente in seguito alla soppressione della Compagnia di Gesù. Tra le opere più preziose che erano conservate in questo edificio vi era la celebre Madonna della ciliegia (1573): commissionata dal nobile perugino Simonetto Anastagi fu trasferita nel 1773 n Vaticano dove ancora è conservata. Il ruolo comunque di quest’opera per la storia dell’arte perugina è comunque centrale: i colori iridescenti e il sapore intimistico dell’opera di Barocci, furono infatti un modello imitatissimo dagli artisti locali sino al XVII secolo inoltrato. A testimonianza dell’antico sfarzo della chiesa dei Gesuiti restano solo i sontuosi affreschi del presbiterio realizzati tra il 1666 e il 1667 da Giovanni Andrea Carlone. Il pittore genovese, che a Perugia aveva lavorato anche in Sant’Ercolano, rappresenta in questi affreschi scene di grande potenza espressiva in cui gli episodi delle Storie di Giosuè sono un chiaro richiamo alla battaglia in difesa e per la diffusione della fede che l’ordine Gesuita a partire dal suo fondatore Ignazio, portò avanti nella sua storia. L’altare maggiore in prezioso marmo nero è sormontato da un bellissimo gruppo dorato di nubi di angeli e di raggi che ricevono luce da una finestra aperta nella volta sfondata, esaltando così lo spirito spettacolare dello stile barocco.
Gli oratori sovrapposti
Di grande interesse sono i tre oratori “gerarchicamente” sovrapposti in corrispondenza della parte absidale della chiesa. Costruiti a partire dagli ultimi anni del XVI secolo in funzione dell’ampliamento dell’edificio, gli ambienti andarono così a creare una specie di torre visibile dal Mercato Coperto e che colma il dislivello tra l’antica piazza del Sopramuro e del Campo di Battaglia. Gli oratori appartenevano rispettivamente alla Congregazione dei Nobili, a quella dei Mercanti e degli Artisti e a quella dei Coloni, i quali a ribadire il posto più basso nella scala sociale, potevano accedervi solo dall’esterno della chiesa. L’oratorio della Congregazione dei Nobili, il primo che si incontra scendendo dalla chiesa venne fondato nel 1596 dal generale della Congregazione Claudio Acquaviva. La volta è affrescata con motivi architettonici realizzati da Girolamo Martelli e Cesare Sermei. Al di sotto vi p l’Oratorio degli Artisti e Mercanti anch’esso fondato per volere dell’Acquaviva nel 1603. Gli affreschi della volta sono di Giovanni Andrea Carlone e particolarmente interessanti sono le nature morte con strumenti musicali che arricchiscono la decorazione. L’oratorio della Congregazione dei Coloni conserva infine all’interno una semplice decorazione con motivi architettonici realizzata nel 1746 da Pierfrancesco Colombati.
I Gesuiti
La Compagnia di Gesù (in latino Societas Iesu) è un istituto religioso maschile di diritto pontificio e i membri di questo ordine sono chierici regolari. Fu fondata da Ignazio di Loyola che, con alcuni compagni, a Parigi nel 1534 fece voto di predicare in Terra Santa (progetto abbandonato nel 1537) e di porsi agli ordini del papa: il programma di Ignazio fu approvato da papa Paolo III con la bolla Regimini militantis ecclesiae (27 settembre 1540).Iñigo López de Loyola nacque, ultimo di tredici figli, attorno al 1491 da una nobile famiglia basca. A tredici anni fu inviato ad Arévalo come paggio del primo tesoriere di Ferdinando II d’Aragona, Juan Velázquez de Cuéllar, e nel 1517 si arruolò nelle truppe del viceré di Navarra, il duca di Nájera Antonio Manrique de Lara, prendendo parte alle guerre di Carlo V contro Francesco I: durante la difesa di Pamplona, assediata dai francesi, fu colpito da una palla di cannone che gli sfracellò la gamba destra e gli ferì la sinistra, costringendolo a claudicare per tutta la vita. Durante il periodo di convalescenza nel castello di Loyola, che trascorse leggendo la Vita Christi di Ludolfo di Sassonia e la Leggenda aurea di Jacopo da Varagine, maturarono in lui i germi di una profonda crisi spirituale e si convertì: deciso a recarsi in pellegrinaggio a Gerusalemme, sostò presso il monastero benedettino di Montserrat e, trascorsa una notte in preghiera davanti all’immagine della Madonna nera, depose le sue armi ai piedi dell’immagine sacra e prese l’abito e il bastone da pellegrino. Si diresse quindi a Manresa, dove rimase un anno vivendo ricche esperienze interiori: lesse l’Imitazione di Cristo, testo a cui rimase legato per tutta la vita e cominciò a cercare la pace dell’anima attraverso opere straordinarie di penitenza, poi ritrovò la serenità d’animo e attenuò le sue austerità; durante il soggiorno a Manresa cominciarono a prendere forma gli elementi essenziali dei suoi Esercizi spirituali. Nel 1523 raggiunse Venezia e si imbarcò per Gerusalemme, dove visitò i luoghi santi. Dovette però abbandonare il progetto di stabilirsi in Palestina per il divieto di soggiorno impostogli dai frati francescani dalla Custodia di Terra Santa. Tornato in Spagna con il desiderio di abbracciare il sacerdozio, riprese gli studi a Barcellona, poi presso l’università di Alcalá dove, per il suo misticismo, fu sospettato di essere un alumbrado e fu tenuto in carcere dall’Inquisizione per quarantadue giorni. Si trasferì quindi a Salamanca e poi, per completare la sua formazione, a Parigi, dove arrivò il 2 febbraio 1528. A Parigi, Ignazio fondò nel 1534 la Compagnia di Gesù, istituto religioso che già nel nome rifletteva il carattere militante dell’associzione, sorta come baluardo della fede cattolica. In un Europa divisa e logorata dallo Scisma con i Protestanti, i Gesuiti furono protagonisti di un radicale rinnovamento e risveglio spirituale favorito anche dalla straordinaria preparazione culturale che veniva impartita ai membri. Espulso da vari paesi europei nella seconda metà del XVIII secolo, l’ordine fu soppresso e dissolto da papa Clemente XIV nel 1773 (la Compagnia sopravvisse però nei territori cattolici della Russia, perché la zarina Caterina II non concesse l’exequatur al decreto papale di soppressione),per essere poi ricostituito da papa Pio VII nel 1814. Ancora oggi i gesuiti sono legati al papa da vincoli di assoluta fedeltà e obbedienza. I mezzi di azione che la Compagnia ha sempre utilizzato sono la predicazione, i collegi per l’educazione dei giovani e le missioni. A Perugia arrivarono nel 1552 chiamati dal cardinale Della Corgna e intervennero anche nell’organizzazione degli studi nel Seminario appena istituito e nell’assistenza al nuovo monastero delle cappuccine.
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