Dalla Chiesa di Sant’Andrea alla Cattedrale di San Lorenzo
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PORTA SANTA SUSANNA
Il rione
Il Rione è formato da due importantissime vie: Via della Sposa, che inizia con l’arco di Santa Susanna e finisce attraverso via Curiosa in piazza San Francesco, da cui inizia l’altra, Via dei Priori, che termina sotto l’arco costruito come collegamento tra il blocco del Palazzo dei Priori e la torre di Benvenuto di Cola dei Servidori.
La tradizione vuole che il nome di Via della Sposa derivi da un episodio avvenuto nel 1351, quando Maria Jacobj, che abitava in Via Tornetta, fu abbandonata sull’altare dall’amato Armando. La ragazza cadde in una profonda depressione, tanto che si pensò fosse prossima alla morte; tanto più che si era diffusa la voce che causa di questo male fosse una fattura scagliata da una strega di nome Luminuccia. Grazie all’intervento del parroco di Sant’Andrea, Armando tornò dall’amata il 15 agosto, giorno della festa della Madonna di Monteluce. Per ringraziare delle preghiere e della vicinanza di tutti i vicini di casa durante i giorni di malattia, la donna, il giorno delle nozze, percorse tutta la via dal fondo fino alla cima.
Via dei Priori, fra le più belle e caratteristiche di Perugia, è conosciuta anche con altri nomi: “via sacra” perché ricca, lungo il percorso, di innumerevoli chiese e oratori, tutti di notevole importanza; ma anche “Antica via etrusca” e poi via regale di Santa Susanna. Il nome attuale deriva dal nome dei dieci magistrati (decemviri o priori), che detennero il governo cittadino dall’ epoca medioevale fino agli inizi del Settecento. Il tracciato si identifica in parte con il decumano maggiore del centro etrusco – romano, che attraversa la città da est (Arco dei Gigli) a ovest (Porta Trasimena). A partire dal ‘300 fu tra i percorsi cittadini di maggiore importanza poiché conduceva al Lago Trasimeno e al Chiugiano, il granaio cittadino. Per questo motivo racchiude una straordinaria densità di edifici privati e religiosi, frutto di una storia che ininterrottamente corre dal Medioevo fino all’età moderna.
Il percorso di Santa Susanna, che prende il nome dall’antica chiesa di Santa Susanna, che si trovava sul luogo dove oggi sorge la bellissima chiesa di San Francesco al Prato, è noto anche con il nome di Porta Sant’Andrea, dall’intestazione della chiesa che si trova in fondo a via della Sposa, o Porta della Colombata, dal nome della strada Colomata o Colombata che arrivava fino al Trasimeno e conduce all’omonima chiesetta tardo-duecentesca, che segna il confine tra città antica e città moderna.
Il colore
Il colore associato alla porta è l’azzurro in richiamo probabilmente proprio all’acqua del Lago a cui porta questa via. Questo colore rappresentò ciò che permetteva di distinguere la componente della porta nelle Compagnie dei Rioni sia in guerra che nelle manifestazioni folcloristiche.
La simbologia
Esaminando i simboli si possono riscontrare tre fasi storiche: quella dell’orso per la fase pagana (precristiana); quella di Santa Susanna tra inizio IV secolo – fine V secolo, fino ai primi decenni del XIV secolo; infine l’ultima fase, che arriva fino ai giorni nostri, è caratterizzata, come già detto, dalle catene su sfondo azzurro.
L’orso è il più antico simbolo associato a questa Porta. Probabilmente la sua scelta è legata ad una sorta di Ver Sacrum (primavera sacra) durante la quale gruppi di giovani, per ragioni di sovrappopolamento, partivano alla conquista di nuove terre da coltivare , scegliendo come insegna un animale che poteva essere reale o mitologico, a protezione dell’impresa. Questo mammifero è uno degli animali più venerati nell’antichità. Alcune culture lo ritenevano sacro perché rappresentante della trasformazione dell’uomo; dèi con sembianze di orso sono presenti nella cultura giapponese, in quella celta e nell’antico ungherese. In particolare in contesto celtico l’orso è il simbolo della classe guerriera, in opposizione simmetrica al cinghiale, simbolo della classe sacerdotale. Anche dee orse si conoscono nella cultura greco-romana: la dea Artemide era connotata in questa veste e le sue sacerdotesse, durante particolari rituali, si vestivano con pelli d’orso. Era inoltre associato alla luna in Siberia e in Alaska, poiché scompare in inverno e riappare in primavera. Ciò indica i suoi legami con il ciclo vegetale, anch’esso governato dalla luna. Nello sciamanesimo era venerato come padre dell’umanità, spirito del mondo sotterraneo e guardiano delle grotte. Nell’ambito dell’alchimia l’orso corrisponde agli istinti e alle fasi iniziali dell’evoluzione. Il suo colore è il nero della materia prima. È stato tradizionalmente l’emblema delle forze elementari suscettibili di evoluzione progressiva, ma capaci anche di temibili regressioni.
Le Catene in campo turchino-azzurro, in memoria del provvedimento preso dalla magistratura perugina nel luglio 1327 di porre grosse catene alle porta dei borghi della città, per creare uno sbarramento, soprattutto alla cavalleria, a difesa o per impedire un eventuale pericoloso veloce accesso nemico dalla via più diretta del rione che conduceva al cuore della città: la Platea Magna. Questo impedimento fu posto anche a valle della via dei Priori per formare una chiusa nella stretta tra l’angolo di via degli Sciri e via San Paolo vicino alla mezza torre di cui restano le vestigia della sommità mozza e del taglio verticale, oggi adattata ad abitazione, la quale mostra alla base una doppia nicchia contenente agganci per le catene che nell’anno sopra ricordato furono poste come barriere sulle strade che portavano alla piazza.L’esistenza di due catene, una al principio e una al termine della via, è attestato fin dal 1327: la funzione di queste è ricordata dallo storico P. Pellini, il quale spiega come le catene venissero impiegate agli imbocchi delle vie principali per fermare i tumulti popolari e per evitare il passaggio con i cavalli soprattutto durante la notte, nei punti strategici della città e per sbarrare la via contro eventuali irruzioni.
La santa protettrice
La dedicazione a Santa Susanna è in relazione con l’affermazione del cristianesimo in Umbria ed al culto commemorativo di questa santa, vergine e martire. Secondo la leggenda, Susanna era moglie di un ebreo facoltoso e a causa della sua bellezza, oggetto del desiderio di due anziani della comunità che insieme concepirono una macchinazione per sedurla: durante un bagno aspettarono che le ancelle se ne fossero andate e sorprendendola nuda, la minacciarono di accusarla di adulterio, crimine punibile con la morte. La donna, tuttavia, non cedette e i due attuarono la loro minaccia: la donna venne ritenuta colpevole e condannata a morte. Riuscì ad evitare la condanna e a ristabilire il suo buon nome grazie all’intervento del giovane Daniele, che smascherò i due bugiardi interrogandoli separatamente e dimostrando l’incongruenza delle due versioni. Una seconda leggenda narra invece di una Susanna martire a Roma sotto l’imperatore Diocleziano. Essa sarebbe stata la figlia di un alto funzionario dalmata, parente dell’imperatore, che si oppose all’ordine imperiale di sposare il generale Massenzio Galerio, successore designato, rinunciando alla sua religione e per questo condannata a decapitazione. Non esiste tuttavia nessun documento storico attendibile che attesti la verità della leggenda. Il nome deriva dall’ebraico Shushan, in aramaico Shoshana, che significa giglio, il fiore della purezza, quindi la donna pura. È un tema tipico dell’arte catacombale, per dare speranza ai perseguitati della liberazione finale del giusto dal male. Nell’iconografia perugina la santa è quasi sempre rappresentata con la palma in mano, simbolo per eccellenza che immortalava la Vittoria ed era associata alla corona di alloro. I cristiani la usarono per simboleggiare il Trionfo della vita sulla morte.
PRIMA STATIO: LA CHIESA DI SANT’ANDREA
La chiesa
Varcato l’arco, sulla sinistra si può ammirare, affacciata su una piccola piazzetta chiusa da un cancello in ferro, la chiesa di S. Andrea, costruita prima del XII secolo e ristrutturata nel 1794; l’esterno è ancora simile a quell’originale neogotico: il portale e il rosone in terracotta sono stati plasmati nella fornace Biscarini; il mosaico nella lunetta sopra l’ingresso è opera del sacerdote pittore Nello Palloni. Il presbiterio, le panche
Il Beato Enrico
Il beato Enrico, secondo la sua leggenda agiografica, era il re di Danimarca e di Norvegia; abbandonò regno e corona per mettersi alla sequela di Cristo, seguendo come terziario la spiritualità di Francesco d’Assisi. Visse la sua esperienza spirituale alla luce del vangelo, abbracciando la povertà e l’umiltà, dedicandosi alla preghiera in luoghi aspri e solitari e peregrinando come penitente. In tale veste si avviò anche verso Roma per pregare sul sepolcro dei santi apostoli Pietro e Paolo. Lungo il tragitto, volendo far sosta presso la tomba di san Francesco in Assisi, giunto nei pressi di Perugia si ammalò e, resosi conto di essere in fin di vita, rivelò la sua identità regale. Era il 13 marzo 1415 quando morì. Le campane della vicina chiesa di Sant’Andrea si misero subito a suonare da sole. La concomitanza di tali eventi fece sì che il vescovo di Perugia andasse con il suo seguito di clero e popolo a onorare la salma del beato Enrico, il cui corpo venne quindi sepolto nella detta chiesa, dove, per sua intercessione, Dio operò in seguito molti miracoli. Fu venerato a lungo come patrono secondario della città di Perugia. Le ossa del beati si conservano sotto l’altare maggiore; alcune reliquie sono custodite in una piccola cappella laterale.
Don Federico Vincenti
Posta sulla facciata del palazzo a sinistra della chiesa, una lapide ricorda il coraggio del parroco Federico Vincenti. Don Vincenti, da giovane sacerdote, si dedicò attivamente all’educazione dei giovani, in seminario e fuori, come animatore e guida degli ”Esploratori cattolici” e del Circolo interparrocchiale di Azione Cattolica “Giosuè Borsi”. Fu parroco di Sant’Andrea dal 1927 al 1954. Durante il periodo 1943-44 nascose in canonica diversi Ebrei scampati ai rastrellamenti nazisti. Nel luglio 1954 una commissione venne in Umbria per consegnargli una medaglia d’oro e un diploma di benemerenza; egli però era morto da poche settimane. Nella pergamena si legge: «A Don Federico Vincenti, che con cristiana bontà, sfidando ogni rischio ci protesse e ci salvò dalle persecuzioni (1943-44), ad eterna riconoscenza» (seguono 34 firme). Don Federico Vincenti è stato annoverato da Yad Vashem tra i “giusti delle nazioni” nel 1997.
SECONDA STATIO: L’ORATORIO DI SAN BERNARDINO
L’oratorio
Con il patrocinio del frate perugino Angelo del Toscano, fu eretto nel 1451 un Oratorio dedicato a San Bernardino da Siena (1380 – 1444), una delle figure più importanti del francescanesimo e molto popolare a Perugia. L’Oratorio di San Bernardino, insieme a quello di Sant’Agostino nel Rione di Porta Sant’Angelo, è chiara testimonianza dell’importanza e della ricchezza delle confraternite laiche della città.
Con questa costruzione Perugia testimoniò la riconoscenza al Santo che in più occasioni attraverso le sue parole aveva rinnovato la fede nella città. L’edificio fu costruito con il generoso contributo del popolo e della municipalità. I frati minori conventuali di San Francesco al Prato, subito dopo la canonizzazione dell’Albizzecchi, congiunsero il culto di San Francesco con quello di San Bernardino.
L’11 aprile del 1451 si diede avvio alla raccolta delle offerte presso i fedeli. Il consiglio dei Priori e dei Camerlenghi stanziò una somma di 150 fiorini. I lavori iniziarono nell’agosto di quello stesso anno e proseguirono con tanto fervore che l’anno seguente la fabbrica era già terminata e presentava un impianto articolato secondo le leggi di una dinamica agile e funzionale: un’aula gotica, divisa in tre campate e ricoperta di un tetto a spioventi che sporgeva abbondantemente per proteggere la facciata. Papa Nicolò V, con la bolla Splendor paternae gloriae del 26 dicembre 1452, concesse l’indulgenza a tutti quei fedeli che nel giorno della festa di San Bernardino, il 20 maggio di ogni anno, si fossero recati nella nuovo edificio.
Promotore dell’erezione dell’Oratorio fu soprattutto il perugino fra’ Angelo di Cristoforo (o del Toscano), Ministro generale dell’Ordine. La morte improvvisa del frate provocò l’arresto momentaneo dei lavori ma presto sia nei frati che nei cittadini e nelle autorità si volle riprendere la costruzione.
La facciata
L’esecuzione della facciata, prevista dal progetto con una ricchissima decorazione, fu affidata ad Agostino di Antonio di Duccio, già conosciuto per la bellissima decorazione della chiesa francescana del Tempio Malatestiano di Rimini. Agostino si accinse all’opera con grande entusiasmo, coadiuvato dal fratello Giovanni e da Bartolomeo da Torgiano. Nel 1461 la facciata era ultimata e la perizia artistica fu approvata da Benedetto Bonfigli e Angelo Baldassarre, entrambi pittori perugini. All’alba del 20 maggio 1461, le campane di Perugia suonarono a festa per l’inaugurazione della facciata.
Tutta la facciata sembra una grande pala d’altare, un polittico di marmi scolpiti con sapiente eleganza ed un’esuberante decorazione plastica. Il tema proposto dai frati è la glorificazione di San Bernardino e la celebrazione delle sue virtù e dei suoi miracoli. E’ considerato il capolavoro di Agostino di Duccio e rappresenta l’opera più importante di decorazione scultorea rinascimentale a Perugia.
Il colore, ricco e caldo, è dovuto ai materiali impiegati, quali il travertino, il marmo di Carrara, il serpentino, il pomato di Assisi, e a stesure artificiali (oro e lapislazzuli).
Lo schema essenziale dell’impianto architettonico è costituito da un grande timpano triangolare, protetto da una tettoia tipicamente fiorentina, nella parte alta. Nella parte mediana domina un maestoso arco trionfale a tutto sesto, in cui si riconosce l’impronta albertiana e che poggia solo virtualmente sui pilastri della parete parte inferiore; è il centro ideale di tutta la facciata e accoglie la gloria di San Bernardino. Sotto è il portale gemino, ispirato a diverse chiese perugine, quali Santa Maria di Monteluce e Sant’Agostino, e della Basilica Superiore di Assisi. Ai lati sono due grandi lesene da dove sporgono quattro leggiadre nicchie tabernacolari, con colonnine a spirale, capitelli di flora gotica e frontespizio acuto. Purtroppo è andato perduto il bel parapetto che fiancheggiava, sul lato destro della facciata, il sacrato e la scala, come risulta da un’incisione di Baldassarre Orsini.
L’architettura, nella facciata di san Bernardino, funge da cornice e da sostegno a quella che è la vera opera d’arte duccesca: le sculture a tutto tondo e i delicatissimi bassorilievi che dalla base al timpano adornano gli spazi parietali.
Il timpano
Il timpano è triangolare e delimitato da una cornice a ovuli e dentelli. È dominato da un Cristo benedicente in posa maiestatica, con un ampio panneggio e con un libro nella mano sinistra; è incorniciato da un semicerchio di cherubini e siede su un trono che poggia su fiocchi di dense nubi
Ai lati due Angeli genuflessi adorano il Redentore; è molto pregevole il modellato, a parte le grandi ali spiegate, sono indubbiamente il motivo più interessante di questa parte della facciata.
Il timpano è coperto da una semplicissima tettoia, messa a protezione contro la pioggia e le intemperie dei delicati marmi scolpiti. Dal Gonfalone di San Bernardino si può notare che la tettoia presentava ornati policromi.
La zona mediana
Alla base del timpano, in una cornice che spartisce in senso orizzontale la facciata, incisa la scritta dedicatoria: AUGUSTA PERUSIA MCCCCLXI. L’anno è il 1461, quello in cui i lavori furono terminati.
GLORIA DI SAN BERNARDINO: nella zona mediana della facciata, l’attenzione è concentrata sulla figura di San Bernardino che ascende al cielo in una mandorla fiammeggiante, è accompagnato da una festosa teoria di Angeli e Cherubini. L’esaltazione di San Bernardino è il fine primario di tutta la composizione.
L’immagine del Santo, al centro dell’arco trionfale, è un miracolo di naturalezza, sobrietà e soavità, tratti ben visibili nel volto, nell’atteggiamento e nella compostezza dei gesti.
San Bernardino porta in mano la tavola con il trigramma del nome di Gesù, realizzato all’interno di un sole raggiante, che ha insito in sé il paragone tra il sole che con i suoi raggi illumina, riscalda e vivifica la terra e Cristo che dispensa agli uomini luce, calore, grazia, salvezza sotto il suo profilo spirituale.
Tutto intorno alla mandorla di luce che racchiude il Santo, otto angeli musicanti sono disposti in perfetta simmetria, quattro per parte. Suonano a coppia gli stessi strumenti: la prima coppia in alto una zampogna, la seconda una tromba, la terza un organo, la quarte il flauto. La tensione del volo è visibile nella loro posizione obliqua, nel ritmo ondulante dei corpi e negli arabeschi tracciati dalle vesti sinuose.
A San Bernardino a agli otto angeli musicanti fanno corona ventisei cherubini, che hanno un bellissimo intreccio dei capelli e delle ali e un volto dal volume tornito e levigato. Sono tutti diversi gli uni dagli altri. Un bel festone di foglie, che circonda la vasta lunetta, fa da cornice a tutte queste schiere celesti.
All’interno del grande arco trionfale, nello strombo, vi sono altre ventuno testine di cherubini: sono appena graffite e meno raffinate ed espressive delle precedenti. L’arconte termina poi con una bella cornice a ovuli e dentelli.
Nel triangolo formato dall’arco, dai piedritti laterali e dall’architrave, in due tondi incorniciati da ghirlande a foglia d’alloro, sono in rilievo su delle mensole due Grifi, che artigliano vitelli.
NICCHIE: nei piloni laterali della facciata, sono disposte quattro bellissime nicchie tabernacolari, formate da colonnine tortili, capitelli goticheggianti, fregi eseguiti con minuzia, timpano, mensole e conchiglie usate per fare da sfondo e ospitano quattro sculture eseguite a tutto tondo.
Le edicole superiori accolgono l’Arcangelo Gabriele, a sinistra, e la Vergine Annunziata, a destra. L’Angelo annunziante ha una modellatura perfetta è raccolto nelle sue vesti (le ali sono un’aggiunta dell’800). La Vergine ha uno splendido volto sferico, che è tra le più suggestive sculture a tutto tondo lasciate da Agostino.
Nei tabernacoli inferiori sono: a sinistra, San Ludovico da Tolosa, uno dei patroni della città (dal 1319), che appartiene all’Ordine francescano; a destra, il vescovo Sant’Ercolano,patrono di Perugia da tempi ancora più antichi.
Il corpo adolescenziale e gracile è racchiuso in vescovi episcopali come in un involucro, dal quale esce il timido volto dagli occhi a mandorla, ricavato da un volume sferico, molto simile a quello dell’Annunziata.
Sotto le edicole dei due Santi, dentro ricche cornici di alloro e melograni, sono riprodotte due immagini di Grifo rampante, stemma di Perugia.
Il portale
Un’altra cornice, decorata da una lunga collana d’alloro che nove testine di putti spartiscono in segmenti, divide orizzontalmente la facciata tra la parte mediana e la zona inferiore. Al centro di questa, sono le due porte gemelle che avevano prevalentemente uno scopo ornamentale, ma rispondevano anche all’esigenza di una maggiore funzionalità, soprattutto in occasione di feste. Al centro dello zoccolo fra le due porte compare una testina di infante.
Gli stipiti e l’architrave sono intagliati a fogliame, frutti e arabeschi. Vi sono elementi decorativi in tutta la facciata, sia in orizzontale che in verticale. Festoni di alloro, frutta e fiori, corimbi, pannocchie e felci sono tutti simboli della fecondità della terra umbra, facendo da sfondo alle figure a tutto tondo e ai bassorilievi modellati con maestria da Agostino.
La zona bassa
I due pilastri tra le lesene e le porte gemelle recano sei coppie di Angeli musicanti e le allegorie delle Virtù. In particolare, le coppie di angeli concertanti sono scolpiti in sei nicchie rettangolari, tre per parte, nella fronte dei pilastri. Degno di nota è anche l’inventiva mai ripetitiva che si manifesta nelle sei composizioni di angeli.
I dodici angeli qui raffigurati suonano vari strumenti.
Procedendo dal basso verso l’alto, in ogni formella abbiamo due angeli che muovendosi a passo di danza, suonano: uno il liuto e l’altro il tamburello (prima formella a sinistra e prima a destra; in quella di sinistra, l’angelo ha in una mano il tamburello ha nell’altra mano un piffero); uno la viella e l’altro il salterio; uno i nakers e l’altro il triangolo.
Da notare che tutti e dodici suonano strumenti a corda, mentre gli otto angeli che fanno corona alla Gloria di San Bernardino, nel piano superiore sono impegnati con strumenti a fiato.
Sempre sui due piedritti che affiancano le porte gemelle, nei sei spicchi marmorei obliqui verso le porte, sono esemplificate alcune Virtù francescane. La straordinaria abilità scultorea dell’artista si vede molto bene osservando la fluidità della linea, la ricchezza delle sfumature, la ricercatezza delle vesti e della dolcezza dei volti. Le Virtù sono rappresentate come fanciulle che affiorano da nicchie appena accennate.
Da sinistra, procedendo dal basso verso l’alto si incontrano: la Castità: ritratta in posizione flessa e aggraziata, ha in mano il simbolico giglio ed è avvolta da veli ondeggianti; la Povertà: indossa vesti lacere, che un cane magrissimo afferra con i denti. È solenne lo svolazzare della stola che le conferisce un portamento regale; la Misericordia: ha una canna in mano e la testa china verso il basso, in atto di umiltà e perdono.
Da destra, procedendo dal basso verso l’alto si possono ammirare: l’Obbedienza: porta il giogo sulle spalle e con una mano stringe i lembi del mantello e indossa con eleganza una veste a pieghe; a Temperanza: ha in mano il morso che simboleggia austerità e penitenzialità. Con il volto duro, il braccio sinistro rigido e il movimento delle vesti ordinatissimo, è la figura meno ispirata, ritenuta opera di collaboratori; la Giustizia: ha una verga in mano e l’altra è alzata in atto di comando. Questa virtù è strettamente legata con la Misericordia, in quanto S. Bernardino usò nella sua predicazione severità con il male e misericordia con i peccatori.
Sotto le nicchie dell’Annunciazione e sopra il portale gemino, scorre una lunga fascia con cinque pannelli di finissimo rilievo dove, con stile scarno e didascalico, sono narrati alcuni Miracoli di San Bernardino. Nel pannello di sinistra, sotto la nicchia dell’Angelo nunziante, è raffigurato il Santo che, per indurre il popolo ad avere fiducia nel nome di Gesù, fa inginocchiare un gregge di pecore davanti ad uno stendardo portato dai frati, sul quale è raffigurato il trigramma di Cristo; tra gli astanti spicca una donna con una lunghissima treccia che attira l’attenzione dello spettatore. Nel pannello di destra, sotto la nicchia dell’Annunziata, è rappresentato S. Bernardino che, mentre predica a L’Aquila su un pulpito di legno la gloria di Maria, ha il capo circonfuso in pieno giorno dallo splendore di una stella; pochi alberi fanno da scenario all’evento. Sopra il portale, nel comparto di sinistra, il miracolo è ambientato sulle rive di un fiume: i genitori di un bambino, caduto nel canale di un fiume, accorrono per trarlo in salvo, ma arrivati troppo tardi, invocano S.Bernardino, che appare e prendendo il bambino lo porta in salvo. Altro episodio, nel pannello centrale, divulga l’efficacia della predicazione fatta a Perugia da San Bernardino nel 1425 contro odio e vanità: il Santo arringa il popolo da un pulpito di legno nella Piazza principale della città, davanti la Fontana Maggiore e vengono bruciati molti idoli superstiziosi mentre notabili, donne e bambini assistono. L’ultima storia, nel pannello di destra, rappresenta un prigioniero che, con le mani legate dietro la schiena e in ginocchio davanti ad un giudice severo, viene condannato ingiustamente e sta per impiccarsi, su istigazione del diavolo, in cella quando il Santo interviene a salvarlo.
Sotto la fascia di questi ultimi tre pannelli, lungo la cornice, è incisa la firma dell’artista: OPUS AUGUSTINI FLORENTINI LAPICIDAE (Opera di Agostino scultore fiorentino). Agostino, firmando il manufatto, era ben conscio del valore di questa stupenda opera di decorazione
L’interno
L’interno conserva spoglie le semplicissime linee gotiche realizzate da anonimi costruttori del 1451: tre snelle campate, con volte a crociera a sesto ogivale, otto pilastri polistili in laterizio da cui partono i costoloni delle volte legati al centro da chiavi in travertino e intersecati da capitelli. L’odierno pavimento in cotto (del 1957) sostituisce le bellissime mattonelle del ‘500 in maiolica di Deruta, smaltate a fiori.
Il Gonfalone di San Francesco al Prato
Sulle pareti importanti opere pittoriche. Nella seconda campata a destra si può ammirare il Gonfalone di San Francesco al Prato, dipinto da Benedetto Bonfigli nel 1464 per una confraternita, che aveva la sua sede proprio nella chiesa francescana. Al centro è rappresentata la Madonna, sulla cui aureola è la scritta dell’annunciazione “Ave Maria Gratia Plena”, in un sontuoso vestito di broccato, che si allarga in grande manto sotto il quale accoglie la comunità perugina riunita e preoccupata per la pestilenza scoppiata in città, a protezione da Cristo giudice, che è in alto tra l’angelo della Giustizia, con la spada sguainata, e l’angelo della Misericordia, che ripone la spada nel fodero in atto di clemenza. Intorno alla Vergine sono raffigurati dall’alto in basso: a sinistra, i Santi Lorenzo, Ercolano, Francesco e Bernardino; a destra, i Santi Ludovico di Tolosa, Costanzo, Pietro martire e Sebastiano.
Sotto, si dispiega la veduta della città; da sinistra: una serie di alte torri davanti alle quali sono rappresentati, vestiti di bianco,alcuni membri appartenenti alla confraternita, poi la chiesa di S. Francesco al Prato vista dalla zona absidale, con il suo campanile gotico andato distrutto, il Palazzo dei Priori, la Cattedrale, altre torri e campanili, e infine le mura, verso cui avanza la Morte alata, in forma di scheletro e armata di frecce, trattenuta e respinta con una lancia dall’Arcangelo Raffaele, mentre alcuni abitanti si danno alla fuga. Sulle mura urbiche si legge “FU R° 1464”. Il quadro è contornato da una cornice fogliata, elemento decorativo ricorrente in molti stendardi del Bonfigli e della sua scuola.
Il Gonfalone di San Francesco al Prato era il gonfalone per eccellenza della città, l’immagine di culto più venerata, cui spettava il posto d’onore fra gli stendardi nelle processioni penitenziali, anche perché l’immagine della Vergine era considerata particolarmente potente contro le guerre e la peste.
Il Gonfalone in occasione della ricostruzione della facciata di San Francesco al Prato (1926) e all’abbattimento della cappella dell’Immacolata Concezione di Maria Santissima, detta del Gonfalone, che era stata costruita direttamente sulla facciata stessa, fu trasferito nella cappella degli Oddi, poi detta del Gonfalone, restaurata da Ugo Tarchi e Alberto Iraci e riaperta al culto nel 1928, ma poi chiusa negli anni ’70 a motivo dei lavori che interessavano il tempio francescano. Dal 1996 il Gonfalone è conservato nell’Oratorio. Rappresenta la Vergine attorniata dai Santi Bernardino, Ercolano, Lorenzo, Ludovico, Costanzo e Sebastiano, mentre protegge con il suo manto i perugini dagli strali che il Cristo, attorniato da due angeli, scaglia dall’alto. In basso sulla sinistra tra le torri emerge la struttura della chiesa di San Francesco al Prato.
La deposizione Baglioni (copia)
Nella parete destra è esposta una copia cinquecentesca della Deposizione di Gesù dalla Croce (Pala Baglioni) di Raffaello Sanzio, eseguita da Orazio Alfani. Vi sono raffigurati il Cristo avvolto in un lenzuolo e sorretto da tre uomini, con accanto la Maddalena e Giovanni apostolo e, a destra, la Madonna che viene meno per il dolore ed è sostenuta da tre donne.
L’originale fu commissionato a Raffaello nel 1507 da Atalanta Baglioni per ornare l’altare della cappella di famiglia, in San Francesco al Prato. È appassionante la storia che c’è dietro la commissione del quadro: nel mese di luglio del 1500 in casa Baglioni è festa per le nozze di Astorre, primogenito di Guido, signore di Perugia. Alcuni congiurati, appartenenti alla stessa casata, tra i quali il ventenne Grifonetto, cugino dello sposo, nella quiete della notte del 15 luglio, per impossessarsi della città, uccidono Astorre, Simonetto, Gismondo e il vecchio Guido. Riesce a sfuggire alla strage Gianpaolo che, radunati uomini fidati, il giorno seguente piomba sulla città trovando scarsa resistenza. Mentre gli altri congiurati fuggono, Grifonetto corre da sua madre Atalanta Baglioni chiedendo senza successo di essere accolto e perdonato. Atalanta lo maledice ed egli disperato va incontro al cugino Gianpaolo cadendo sotto i colpi dei suoi soldati. Atalanta, nell’apprendere la notizia, sente il cuore sanguinare di rimorso e di dolore e insieme alla sposa di Grifonetto, Zenopia, corre a ricevere l’ultimo respiro del figlio che le chiede perdono.
Nel 1507 la stessa Atalanta commissiona a Raffaello un quadro in cui la disperazione di madre davanti a Grifonetto morente possa rispecchiarsi nello strazio della Madre di Cristo al momento della deposizione. In effetti nei lineamenti della Madonna si riconoscono quelli di Atalanta, mentre la Maddalena assomiglia a Zenopia e la maestosa figura del giovane portatore, che campeggia al centro del quadro tra il Cristo e la Madonna, ha la fisionomia di Grifonetto.
La Deposizione di Raffaello, ora alla Galleria Borghese di Roma, fu donata nel 1608 al Card. Scipione Borghese il quale, per tacitare le proteste dei Perugini, mandò per la chiesa di San Francesco al Prato la copia del quadro realizzata dal cavalier Giuseppe Cesare D’Arpino e cinque lampade d’argento. Questa copia, dal 1863 è conservata nella Galleria Nazionale dell’Umbria. La copia ivi visibile fu eseguita da Orazio Alfani intorno al 1554 e conservata nell’Oratorio dal 1970. È la più antica e la più bella tra le copie esistenti del celebre dipinto raffaellesco.
L’altare Maggiore
L’altare Maggiore originale, in stile gotico, si trova, dai primi anni del secolo scorso, nella chiesa dei SS. Severo e Agata. L’altare attuale è ricavato da un prezioso sarcofago paleocristiano nel IV secolo, riadattato a sepoltura del Beato Egidio, morto nell’eremo di Monteripido il 23 aprile 1262 e tumulato nella cripta di San Francesco al Prato. L’accesso al sepolcro fu occultato intorno alla metà del XIV secolo, per timore che il corpo fosse trafugato da città nemiche.
A seguito delle demaniazioni post unitarie, la Chiesa di San Francesco venne chiusa: il sarcofago venne sistemato nel museo civico presso l’Università e le ossa del beato Egidio vennero traslate prima nella cappella del Vescovado (1872) poi nella cappella di S. Onofrio in Cattedrale (1880) e infine nel Convento di Monteripido (1920). Solo nel 1936 vennero definitivamente sistemate nell’Oratorio di San Bernardino. Il sarcofago stesso nel 1946 fu riconsegnato ai frati e di nuovo ospitò i resti sacri, venendo adibito ad altare maggiore della chiesa.
Il sarcofago è attribuito alla stessa officina di quello romano di Giunio Basso, conservato nelle Grotte Vaticane. La facciata anteriore è scandita in sette edicole, formate da otto colonnine con scanalatura elicoidale e capitelli compositi, raccordate in alto alternativamente da frontoni e archi, nei cui punti di giunzione figurano colombe con ramoscelli di ulivo e piccole corone lemniscate; ai due estremi, invece, si collocano i resti di una tritonessa, a sinistra, e un tritone, oggi non più visibile, a destra. Le edicole ospitano figure a tutto tondo: nella nicchia centrale è Cristo assiso in trono, giovane e imberbe, che indossa una tunica e un pallio, nella mano sinistra ha un rotolo semiaperto e tiene sollevata la mano destra in gesto oratorio. In secondo piano è una figura virile e barbata. La nicchia a destra del giovane Cristo accoglie una elegante figura femminile, con il capo rivolto verso il Maestro e un volume nella mano sinistra. Probabilmente è la Personificazione della Chiesa; anche in questa sezione in secondo piano c’è un uomo ma questa volta imberbe. La nicchia a sinistra del Cristo ha una figura virile e barbata, vestita di tunica e pallio, colta in atteggiamento assorto e con un volume chiuso nella mano sinistra. Giordani vi ha identificato San Pietro, alle cui spalle vi è sempre una figura maschile anch’essa non identificata.
Le rimanenti quattro nicchie ospitano altri personaggi, barbati o imberbi, che sono stati identificati con alcuni Apostoli oppure con una Comunità di Santi, tutti raffigurati in un atteggiamento di nobile dignità; tutti sono vestiti con una tunica e pallio e hanno il consueto “volumen” o tra le mani o appoggiato sul coperchio di una cassa.
Sul coperchio del sarcofago, due bassorilievi narrano la storia del profeta Giona: quello di destra è raffigurato Giona che viene gettato in mare da una nave con tre marinai e inghiottito dalla balena; il rilievo di sinistra invece è dominato dal profeta che riposa sotto un albero di ricino. Dalle acque è ben visibile la testa del cetaceo che l’ha riportato a riva. È una chiara allusione al tema della Morte e Resurrezione, molto usato nei manufatti di età paleocristiana. Nella scena di sinistra trova posto anche la raffigurazione Noè all’interno dell’arca che riceve il ramoscello d’ulivo dalla colomba. Alle estremità sono due Volti di profilo: difficilmente identificabili perché i caratteri somatici dell’uomo barbato potrebbero ricondurre a San Paolo ma la figura imberbe non è riconducibile a nessuna iconografia nota.
Nella tabula al centro è l’iscrizione in lettere dorate, sorretta da due angeli: BEATI AEGIDIJ SEPULCHRUM, che attesta la presenza delle spoglie mortali del Beato nel sarcofago. Qui riposavano anche le spoglie di un altro frate francescano, Beato Corrado da Offida, fino al 1994 quando sono state riconsegnate alla città natale. Vi rimane soltanto la Reliquia del costato.
Altre emergenze
Posto al centro della parete di fondo, sopra l’altare, raffigura il Cristo con il capo reclinato sul braccio destro. È una scultura lignea policroma, eseguita intorno al 1550 dal perugino Eusebio Bastoni per il coro della vicina chiesa di S. Francesco al Prato. Al di sotto della statua, il Tabernacolo sulle cui porte è inciso il trigramma raggiato con il nome di Gesù, era una porzione di una statua più grande di San Bernardino, perduta.
La Lastra tombale di Fra Angelo del Toscano è murata nella parete della prima campata dell’edificio; vi è scolpita l’immagine del frate realizzata da Agostino di Duccio con le mani sul petto. In alto è riportata la data della morte: OBIIT XX AUGUSTI MCCCCLIII e in basso l’iscrizione:
ANGELUS UT TENUI NUNC MORTUUS OCCULOR URNA
HIC GENITUS PATRIAE GLORIA MAGNA FUI
CUM BERNARDINI TEMPLO CELE(B)RATUS ET ARA EST
FRANCISCI CUSTOS TUNC GENERALIS ERAM
PONTIFICE EUGENIO GRAECOS HAERESIMQUE REFELLI
ET TETIGI FAMA SIDERA CELSA MEA
Io, Angelo, qui nato, anche se ora, morto, sono chiuso in un umile avello, fu gloria eccelsa della mia patria. Quando Bernardino fu celebrato con un Tempio e un altare, io ero allora Ministro Generale [dell’Ordine] di San Francesco. Sotto il pontificato di Eugenio [IV] combattei l’eresia dei Greci, e raggiunsi con la mia fama le più alte stelle”
Degni di nota appoggiati alla controfacciata ricordiamo: un’Acquasantiera quattrocentesca in marmo bianco, ornata da motivi floreali; una statua di S. Antonio da Padova, in legno, opera di Artemio Giovagnoni (1959); una statua bronzea dell’Immacolata Concezione, opera di Benedetto Ravazzi (1961). Posti davanti alle due statue, inginocchiatoi del XVIII secolo.
La sacrestia
L’ingresso è situato nella terza campata a destra. Vi si conserva un’importantissima statua di San Francesco, scolpita nel legno nella prima metà del XVI secolo. Ha una base esagonale, sempre in legno, con modanature e una sottile patina dorata; il Santo ha nella mano destra un piccolo crocifisso in legno intagliato e nella sinistra un libro.
Sulla parete, una tela ad olio del XVIII secolo con San Francesco riprende l’iconografia del santo della tavola conservata nel Museo del Sacro Convento di Assisi, opera del Maestro del Tesoro (seconda metà XIII secolo).
Dalla sacrestia si può accedere alla Cappella Baldeschi, eretta nel XIV secolo, collega la sacrestia all’angolo esteriore della chiesa di San Francesco a Prato, dove è il Mausoleo di Bartolo da Sassoferrato, famoso giurista perugino.
L’oratorio dei santi Andrea e Bernardino (detto “della Confraternita della Giustizia”)
È collegato all’Oratorio di S. Bernardino grazie alle due porte del XVIII secolo poste nella parete di fondo. Negli architravi è l’iscrizione: ORATORIUM FR[aternitatis] IUSTITIE.
La sua costruzione risale al 1537, opera dell’omonima confraternita nata dalla fusione di due associazioni laicali perugine, originate dal movimento dei flagellanti promosso dal 1260 da Raniero Fasani: la prima era la Confraternita di S. Andrea, nata nel 1374 per assistere i condannati a morte; la sede era dapprima nella Chiesa di S. Caterina, dipendente dal Priorato di San Benedetto della Cupa, poi dal 1436, nella piccola chiesa di S. Mustiola, nei pressi di Porta Santa Susanna, dipendente dai Canonici regolari di S. Mustiola di Chiusi. La seconda era la Confraternita di San Bernardino, sorta tra il 1456 e il 1460, con sede presso Porta Eburnea, vicino a Santa Giuliana.
La nuova confraternita dei Santi Andrea e Bernardino mantenne quella peculiare dell’assistenza spirituale e materiale ai condannati a morte, da cui il nome “della Giustizia”, la visita ai carcerati e la dotazione annua per le fanciulle povere.
Venne eretta nei locali dell’antico noviziato del Convento di San Francesco al Prato. Nel ‘600 raggiunge l’apice della sua importanza sia economico che sociale, ottenendo numerosi lasciti testamentari per sostenere le sue opere di assistenza.
All’Oratorio si accede tramite un piccolo atrio, ai cui lati sono due armadi settecenteschi, incassati nel muro, che nella parte alta portano scolpito lo stemma della confraternita. Al centro della parete, sotto un piccolo armadio a muro sulla cui ante sono dipinte le canne di un organo, è presente una targa di iscrizione in cui è riportata la data dell’istituzione dell’Oratorio della Giustizia (1537):
SODALITIUM SUB AUSPICIIS DD. ANDREAE ET BERNARDINI
PROPE POMERIUM URBIS AD PORTAM DIVAE SUSANNAE
ANNO MCCCLXXIV CIRCITER ERECTUM
DEINDE ANNO MDXXXVII AD COENOBIUM DIVI FRANCISCI
TRASLATUM
SODALES UNIVERSI
COELESTIUM PATRONORUM NUMINI MAIESTATIQUE DEVOTI
SAECULIS XVII-XVIII DIUTURNA CURA NOVIS CONSTRUTIONIBUS
AMPLIARUNT
TABULI PICTIS ABSIDE ALTARE OPERE ALBARIO AURO NITENTIBUS
OMNIBUS
ET NOVO CULTU EXORNANDUM CURARUNT ASSIDUE
“Questo sodalizio che, sotto gli auspici dei Santi Andrea e Bernardino,fu eretto intorno al 1374, presso il pomerio della città nella zona di Santa Susanna e indi traslato nel 1537 presso il convento di San Francesco, i confratelli unanimi, devoti alla grande santità dei celesti patroni, con diuturna cura dei secoli XVII e XVIII ampliarono con nuove costruzioni, dipinti, abside, stucchi, tutti risplendenti di oro, ed ebbero costantemente cura che fosse provvisto di rinnovato culto”.
Il soffitto e l’altare lignei
Superato l’atrio, appare una vasta aula nobile, elegante e armoniosa. Il rinascimentale Soffitto ligneo a cassettoni, ultimato tra il 1582 e il 1588, è diviso in quindici lacunari intagliati, dorati da Giacomo Agretti nel 1763. Tutti i lacunari, divisi da fasce ornate da fiori, hanno nel mezzo un rosone, mentre in quello centrale, in un ovale, è l’insegna araldica della nobile confraternita.
L’altare barocco fu intagliato nel 1629 e dorato da Agretti nel 1762. Vi era conservato anche la tavola del Perugino, il Gonfalone della Giustizia, dal 1863 alla Galleria Nazionale dell’Umbria, raffigurante la Madonna con Bambino in gloria tra gli angeli, i Santi Francesco e Bernardino inginocchiati, i magistrati, i confratelli della Giustizia, una moltitudine di persone e, sullo sfondo, la veduta di Perugia dalla parte del Rione di Porta Santa Susanna. Oggi conserva una delicatissima tela di Gaetano Lapis, allievo di Conca, raffigurante una Madonna con Bambino tra i Santi Giovanni Battista, Andrea e Bernardino (1762) con il trigramma bernardiniano nella mano di uno degli angeli. Nel frontespizio diviso dell’altare, si notano le figure della Giustizia e della Pace. Sopra l’Attico, dove è lo Spirito Santo in forma di colomba, due angeli portano in trionfo la croce. Nell’elegante baldacchino è dipinto, tra il 1781 e 1787, l’Eterno fra gli angeli, opera di Marcello Leopardi. Sulla base dell’altare sono scolpite le decorazioni a fogliame e gli stemmi della Confraternita.
Le tele
Lungo le pareti, entro cornici di stucco dorato, sono dieci Tele di artisti neoclassici, che narrano episodi della vita di San Giovanni Battista, di Sant’Andrea e di San Bernardino. Da destra si può ammirare:
Bernardino ricusa la dignità cardinalizia e il vescovato di Siena: il Santo inginocchiato davanti a papa Martino V esprime il suo rifiuto; un angelo in alto ha il trigramma bernardiniano. L’autore è Vincenzo Ferreri (1790)
Predicazione di Giovanni Battista: il Profeta indica con la mano destra Cristo a due suoi discepoli, in alto due angeli assistono alla scena. L’autore è Marcello Leopardi (1787)
Miracolo di San Bernardino: il Santo intercede per la guarigione di Nicola Teutonico, su richiesta della moglie di quest’ultimo caduto dalle mura di Perugia e rimasto privo di sensi per ben 8 ore e perciò creduto morto. L’autore è Carlo Labruzzi (1790)
S.Andrea fustigato: l’Apostolo è nelle mani dei suoi persecutori che lo percuotono;in alto, tra le nuvole, spunta un angelo con la croce tra le mani. L’autore, che appone la sua firma in basso a sinistra, è Marcello Leopardi (1785)
Battesimo di Gesù: Giovanni Lo sta battezzando mentre è inginocchiato nelle acque del Giordano. L’autore è ancora Marcello Leopardi (1781)
Seguitando a sinistra si trovano:
Giovanni Battista nel carcere di Macheronte: il Santo sta per subire il martirio e insieme al suo persecutore è investito da una luce che li illumina. L’autore è Marcello Leopardi (1781)
Crocifissione di S.Andrea: mentre Andrea è inchiodato alla croce da alcuni soldati, in alto due angeli hanno in mano una corona di fiori e una palma, entrambi simboli di martirio. L’autore è Marcello Leopardi (1785)
Predicazione di San Bernardino: il Santo, con il trigramma in mano, parla davanti ad una grande folla; sullo sfondo c’è Perugia. L’autore è Teodoro Matteini (1790).
Giovanni Battista decapitato: il corpo è adagiato a terra e la testa è consegnato ad Erodiade sul vassoio d’argento; al di sopra l’angelo con la corona del martirio e la palma. L’autore è Marcello Leopardi (1785).
S. Andrea saluta e abbraccia la croce: un soldato sta preparando la croce per il martirio e l’Apostolo è inginocchiato di fronte ad essa; sopra due angeli con in mano i simboli del martirio. L’autore è Vincenzo Ferreri (1790).
Sopra l’arco la scritta in latino:
UT AUGUSTIUS PATERET SODALITATIS
UNIVERSAE OPE ET INSTANTIA PERFECTUM
EST An[no] R[estauratae] S[alutis] MDCCCXVIII
“Perché questo Oratorio apparisse più maestoso, fu portato a compimento, per interessamento e opera di tutta la Confraternita, nell’anno della Redenzione, 1818”.
Il coro e la sacrestia
Il coro è composto da due eleganti postergali di noce, addossati alle pareti laterali e dai genuflessori a balcone, di compiuto stile neoclassico; I riquadri del dorsale sono alternate a colonnine verniciate di nero ebano e con lumeggiature in oro ai capitelli e alle basi. Fu disegnato da Vincenzo Ansidei ed eseguito da Serafino Franceschini (1817 – 1818), entrambi perugini.
Il pavimento, opera musiva a tessere irregolari di colore bianco, nero, rosso e giallo, fu disegnato dall’Ansidei ed eseguito dal perugino Davide Bartoccini (1817). L’inginocchiatoio al centro, in legno di noce, con otto colonnine tortili, è del XVIII secolo.
La decorazione pittorica delle Porte settecentesche, ai lati dell’altare, è un ulteriore elemento che conferisce elegante finezza all’Oratorio. I riquadri delle ante, di grandezze diverse, sono decorati su fondo verde con cherubini e motivi floreali.
Dalle due porte si accede alla sacrestia, arredata con credenza, paratoio e angoliera, laccati in verde con decorazioni in giallo, datati al XIX secolo.
San Bernardino da Siena
Nato a Massa Marittima l’8 settembre 1380, Bernardino degli Albizzecchi, il giorno del suo compleanno del 1403 entrò nel convento francescano di Siena e esattamente un anno dopo fu ordinato sacerdote. Da subito fu un importante studioso e scrisse varie opere sulle principali verità dogmatiche e morali del Cristianesimo. Per le sue elevate qualità e l’esemplarità delle sue azioni, più volte gli furono offerti i Vescovati di Siena, Ferrara e Urbino, che sempre rifiutò. Dal 1438 al 1442 svolse l’ufficio di Vicario Generale per l’Osservanza, un movimento di riforma francescana nato nel 1368; fra Bernardino diede grande impulso a questo nuovo movimento, tanto che i conventi riformati passarono con lui da una ventina a più di duecento .
Tra le varie attività espletate da San Bernardino, quella principale fu la prodigiosa opera di predicazione itinerante e popolare, iniziata a Genova nel 1417 e poi in tutta Italia.
I fedeli accorrevano numerosi ad ascoltarlo e con molte difficoltà si riusciva a raggiungere un numero sufficiente di sacerdoti per confessare e amministrare la santa Comunione a tutti i presenti che lo desideravano.
Le predicazioni a Perugia del Santo furono quattro: dal 19 settembre all’11 novembre del 1425; dal 20 al 24 febbraio del 1427 ; il 28 e il 29 settembre 1438; dal 10 al 16 agosto 1441.
Sostò a Perugia per l’ultima volta il 4 maggio 1444, diretto a L’Aquila, già malato e stanco per il lungo viaggio. In questa occasione salì sul grazioso pulpito che i perugini avevano costruito appositamente per lui sulla parete sinistra della Cattedrale. Morì a L’Aquila pochi giorni dopo, il 20 maggio, nel convento di San Francesco e traslato nella chiesa vicina. Dal 1474 le reliquie riposano nella chiesa di San Bernardino a L’Aquila.
Alla notizia della sua morte i Perugia gli tributò importanti onori funebri nella giornata del 14 giugno 1444. Fu iscritto nell’albo dei Santi durante il Giubileo del 1450 a Roma. A Perugia i magistrati, per festeggiare la canonizzazione, stabilirono tra l’altro che si facesse una solenne processione dalla Cattedrale a San Francesco al Prato e per l’occasione venne confezionato uno stendardo di seta rossa con l’effige del santo.
Il beato Egidio
Il beato Egidio, terzo compagno di San Francesco dimorò nell’eremo di Monteripido fino al giorno della sua morte, il 23 aprile 1262. Prima di morire, il beato pronunciò queste parole: Sappiano i Perugini che né per la mia canonizzazione, né per i miei miracoli, giammai suoneranno le campane. Un solo segno io darò ad essi dopo la mia morte e sarà quello del profeta Giona” (Sorbi Salmareggi 1962, pag 76). Tale profezia si avverò, poiché in concomitanza con la sua morte, nella cripta della chiesa di San Francesco al Prato fu rinvenuto un sarcofago di IV sec con bassorilievi raffiguranti le Storie di Giona. All’indomani della scoperta il sarcofago paleocristiano fu utilizzato per custodirvi il corpo del santo e e venne trasportato nella cripta della chiesa francescana. Nella metà del secolo successivo, il passaggio per scendere nel sepolcro venne chiuso e occultato, come era avvenuto ad Assisi per il corpo del santo, affinché non cadesse nelle mani dei nemici in caso di espugnazione della città. Nel 1439, riscoperto da Giovanni Baglioni, vescovo di Perugia, il sarcofago venne deposto nella Cappella Crispolti, dove rimase fino alla ristrutturazione carattoliana del 1738. Nel 1860, le reliquie del santo furono traslate nel Duomo cittadino e il sarcofago esposto nel Civico Museo dell’Università. Nel 1889 furono traslate nella cappella di Sant’Onofrio e nel 1920 nel Convento di Monteripido, finché nel 1936, le ossa furono restituite ai Minori Conventuali, che nuovamente le posero nel Sarcofago paleocristiano e lo posero nell’Oratorio di San Bernardino
TERZA STATIO: LA CHIESA DI SAN LUCA
La chiesa
La chiesa fu eretta dai Gerosolomitani nel 1586 in stile tardo manierista, attribuita a Giulio Danti o Bernardino Sozi;. oggi appartiene al Corpo Italiano di Soccorso dell’Ordine di Malta. È posta accanto alla chiesa della Madonna della Luce ma arretrata leggermente rispetto ad essa. Il perimetro di questa proprietà rasenta tutto il fianco destro di via Curiosa e parte di via San Francesco.
L’esterno, estremamente semplice privo di decorazioni di rilievo, in travertino, è dominato da un portale rettangolare, in legno, con le croci, simbolo dell’Ordine in bianco; sull’architrave spicca un angioletto con le ali. Ai lati dell’ingresso due nicchie, oggi vuote.
All’interno, a tre campate suddiviso da tre pilastri dorici, sulla destra, è una tela di Anton Maria Garbi (1718-1797), raffigurante S. Luigi Gonzaga in gloria. Sull’altare la Madonna con Bambino tra San Luca e San Giovanni Battista (1632) di Giovanni Antonio Scaramuccia. A sinistra è il Salvatore che appare a S. Giovanni della Croce, del perugino Francesco Busti (1678 – 1767). Nella cappellina vicina all’entrata è un affresco con la Madonna delle Grazie del XIV secolo.
La Commenda
Accanto la chiesa è la Casa della Commenda dei Cavalieri Gerosolimitani, in travertino, dalle finestre a croce e di impianto quattrocentesco (1484) edificata per volere dell’arcipriore Cataneo de’ Traversari di Savona, al quale appartiene uno degli stemmi della facciata; l’altro è di Francesco Della Rovere, futuro Sisto IV, predecessore di Traversari alla guida della chiesa. Gli stemmi furono rovinati nel 1798. Sopra l’architrave del portale, la scritta LAUS DEO.
Procedendo oltre verso la fine della strada, ci si affaccia su piazza San Francesco, dominata dall’omonima e maestosa chiesa francescana e, accanto sulla sinistra, l’Oratorio di San Bernardino.
I Cavalieri di Malta
Il Sovrano Ordine Militare e Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme, di Rodi e di Malta è il più antico ordine cavalleresco esistente. Cronologicamente è anche il terzo ordine religioso della cristianità; l’unico ramo superstite di quel periodo storico conosciuto con il nome di Crociate. Ha da sempre una funzione ospedaliera: nel 1080 Fra Gerardo aveva fondato un ospedale a Gerusalemme. Il compito dell’Ordine era quello di assistere i poveri e ciò implicava la necessaria raccolta di elemosine e di decime, sia in Oriente che in Occidente. I fratelli che prestavano la loro opera nell’ospizio erano sacerdoti o laici. Agli inizi pare esistesse una lieve distinzione tra i laici combattenti e quelli addetti semplicemente al servizio ospedaliero ma tutti erano tenuti a pronunciare voti di povertà, castità e obbedienza alla regola dell’Ordine. Dopo la metà del Dodicesimo secolo nei Cavalieri appare un aspetto più militare.
Oggi il carattere cavalleresco dell’Ordine ha una grande valenza morale perché sottolinea lo spirito di sacrificio, servizio e disciplina che anima gli adepti.. Le battaglie non sono più combattute con la violenza ma con la testimonianza e la fede cattolica: i Cavalieri e le Dame dell’Ordine di Malta devono tenere una condotta cristiana sia nella vita pubblica che in quella privata e in particolare un’attiva opera di assistenza ospedaliera e sociale, dedicando parte delle loro energie all’aiuto del prossimo.
I membri dell’Ordine si dividono in tre ceti. Appartengono al primo Ceto i Cavalieri di Giustizia (ovvero professi) e i cappellani convenutali: devono pronunciare la professione dei Voti di obbedienza, castità e povertà. I membri del secondo Ceto sono tenuti a vivere secondo la Promessa, cioè rispettando i principi cristiani e quelli dell’Ordine e sono a loro volta suddivisi in tre categorie: Cavalieri e Dame di Onore e Devozione in Obbedienza, Cavalieri e Dame di Grazia e Devozione in Obbedienza, Cavalieri e Dame di Grazia Magistrale in Obbedienza. Il terzo Ceto è costituito da tutti coloro che non emettono né la Professione dei Voti né la Promessa, ma rispettano i principi della Chiesa e dell’Ordine. Si dividono in sei sotto categorie: Cavalieri e Dame di Grazia e Devozione, Cappellani e Conventuali ad honorem, Cavalieri e Dame di Grazia e Devozione, Cappellani Magistrali, Cavalieri e Dame di Grazia Magistrale, Donati e Donate di Devozione.
QUARTA STATIO:LA CHIESA DI SANTA TERESA DEGLI SCALZI
La chiesa
La chiesa di Santa Teresa dei Carmelitani Scalzi, costruita tra il 1622 e il 1718 da Alessandro Baglioni, fu sede dell’Ordine fino al 1889. La facciata è rimasta incompiuta. L’interno è molto luminoso e ha un’impostazione a croce greca con cupola all’incrocio dei bracci e cupolette ai lati. Sul primo altare di destra vi è l’opera di Anton Maria Garbi (1718 – 1797) intitolata S. Maria Maddalena dei Pazzi estatica davanti alla gloria di S.Luigi Gonzaga e alla Trinità. A destra l’Annunciazione, attribuibile al pittore umbro Ippolito Borghesini ( prima metà del XVII secolo). Ai lati dell’altare della crociera destra vi sono due affreschi, incorniciati da marmi policromi, del pittore umbro Giacinto Boccanera (1666 – 1746): a destra gli Apostoli Filippo e Giacomo, a sinistra S. Michele Arcangelo e l’Angelo Custode. Nei pilastri laterali, in stucco a bassorilievo, sono S. Agnese a sinistra e S. Francesco d’Assisi a destra. (XVIII secolo). Sull’altare successivo Madonna con Bambino tra S. Giuseppe e Santa Teresa, del pittore perugino Giovanni Antonio Scaramuccia (1570 – 1633). Nell’abside vi sono tre tele: da destra Gesù Bambino adorato dalla Madre, da S.Giuseppe e da S. Teresa (autore incerto, XVIII sec); la Madonna con Bambino e Santi (scuola di C. Gherardi XVI secolo); infine S. Giuseppe col Bambino (autore Garbi). Sul primo altare di sinistra, la Vergine e il Bambino in gloria tra i Santi (autore ignoto del XIX secolo) a cui segue S. Teresa trafitta da un Angelo, con la Madonna, il Bambino e i Santi Giovanni Battista, Antonio da Padova, Pietro e Francesco da Paola (autore: Carlo Lamparelli XVIII secolo). Sull’ultimo altare una Deposizione di Garbi, copia di un’opera di Annibale Carracci. Sulla parete della controfacciata, sono S. Luigi Gonzaga, S. Teresa e S. Giovanni della Croce (XVIII secolo). In sacrestia sono conservate otto tele con ritratti di carmelitani (XVIII secolo).
I Carmelitani scalzi
I Carmelitani sono nati, verso la fine del XII secolo, da un gruppo indefinito e non identificato di laici, pellegrini crociati, che stanchi della guerra o desiderosi di attendere l’ultima venuta del Signore – che, secondo la mentalità apocalittica, doveva avvenire a Gerusalemme – si sono ritirati sulla montagna del Carmelo. Lì hanno adottato uno stile di vita eremitico, comune in quei tempi, come opposizione e riforma del movimento monastico. Quei primi Carmelitani si dedicavano all’orazione e alla meditazione della Parola di Dio. Ancor prima di strutturarsi in comunità, come avverrà con la Regola, sono eremiti indipendenti, che ricercano la perfezione attraverso la solitudine e la lotta con il diavolo – nel solco della spiritualità dei padri del deserto – e contro tutti i nemici dell’uomo, tra i quali le passioni.
In un secondo momento, tra il 1206 e il 1214, chiedono ad Alberto Avogadro, patriarca di Gerusalemme, residente in San Giovanni d’Acri, una regola, una forma di vita, per la comunità e nella quale si definisca l’ideale carmelitano come “vivere nell’ossequio di Gesù Cristo, servendolo fedelmente con cuore puro e buona coscienza”.
La mancanza di sicurezza nella Terra Santa, fa sì che i Carmelitani comincino ad emigrare verso l’Europa; si stabiliscono a Cipro, il Sicilia, Francia e Inghilterra. Nel 1291, con la caduta di San Giovanni d’Acri, termina la presenza dei Carmelitani sul Monte Carmelo.
La mitigazione della Regola e i suoi adattamenti alle nuove esigenze della vita religiosa volute da Innocenzo IV nel 1247, segna il passaggio dalle origini eremitiche dell’Ordine del Carmelo alla forma di vita mendicante. Si permette ai Carmelitani di fondare i conventi nelle città e dedicarsi all’apostolato come gli altri Ordini Mendicanti, anche se solo con il II Concilio di Lione saranno ufficialmente mendicanti insieme ai Domenicani, Francescani ed Eremiti di sant’Agostino.
I carmelitani desiderano ancora oggi vivere in ossequio di Gesù Cristo secondo questi tratti caratteristici: la contemplazione, fondamento della vita e dell’apostolato del carmelitano; l’orazione e la meditazione; il raccoglimento e il silenzio; l’ascesi, che implica la sobrietà della vita e la povertà del vivere in umiltà e dipendendo dagli altri, ed infine l’apostolato, nella propria chiesa come a servizio della realtà ecclesiale.
QUINTA STATIO: LA CHIESA DELL’IMMACOLATA CONCEZIONE O DI SAN FILIPPO NERI
La Congregazione dell’Oratorio a Perugia
L’idea di fondare a Perugia una Congregazione dell’Oratorio fu dei nobili perugini Orazio Mancini e Sozio Sozi, i quali proposero al vescovo di Perugia, mons. Napoleone Comitoli, di introdurre le pratiche oratoriane tipiche della nuova concezione introdotta nella Chiesa da San Filippo Neri (+ 1595), ancora in vita all’epoca dei fatti e da sempre sostenitore dell’apertura di una succursale dell’Istituto nel cuore del capoluogo umbro; così ottenuto il permesso di riunirsi nella chiesa di San Giovanni Rotondo, i padri Mancini e Sozi, nel 1618, acquistarono il gruppo di case addossate alla chiesa, tra via dei Priori, via della Stella e via Ritorta, e iniziarono i lavori di demolizione delle stesse nel 1626.
La costruzione della “chiesa nuova”
L’anno successivo, il 26 maggio, festa di San Filippo e dell’Immacolata Concezione di Maria, alla presenza del vescovo di Nocera Umbra, mons. Virgilio Florenzi, chiamato in sostituzione del vescovo di Perugia, richiamato a Roma, con una solenne cerimonia, fu posta la prima pietra.
Gli scalpellini e i muratori cominciarono a lavorare insieme: i primi alla facciata e gli ornamenti esterni, i secondi all’interno.I lavori iniziarono dalla zona absidale e proseguirono in direzione della navata.
Purtroppo il 25 gennaio 1630 venne a mancare padre Mancini e padre Sozi assunse da solo la guida del cantiere.
Nel 1632 i lavori erano a buon punto e già molti esponenti delle famiglie più in vista cominciavano a richiedere la concessione di costruire cappelle a nome delle proprie famiglie. Padre Sozi si adoperò allora per smorzare gli ardori della committenza ed evitare che un’incontrollata concessione delle autorizzazioni disperdesse l’omogeneità del progetto decorativo. Assunse per sé l’onere di decorare la terza cappella a destra, cappella dedicata all’ Assunzione della Vergine, che fu sistemata da Mastro Tommaso Stati, lo stesso che si era occupato della facciata. Per vedere i lavori conclusi si dovette attendere il 1637, anno in cui fu eseguito l’altare della stessa cappella in marmo che accolse l’Assunta di Guido Reni. Terminata questa primissima cappella, i padri dell’oratorio furono lieti di concedere ai richiedenti la possibilità di intervento sulle rimanenti cappelle
Il 7 dicembre 1634 l’alzato della chiesa era terminato; fu inaugurata dall’Arciprete Orazio Monaldi, fratello del card. Benedetto Monaldi, vescovo di Perugia. Padre Sozi cantò la messa il giorno seguente. Nel novembre del 1695, anno in cui fu terminato il pavimento, in pietra di Assisi con incastonate alcune pietre tombali, i padri oratoriani iniziarono ufficialmente a celebrare messa nella Chiesa Nuova, che tuttavia era ancora priva della zona presbiteriale. I lavori per la costruzione del transetto iniziarono nel 1640, subito dopo la demolizione della facciata della precedente chiesa dedicata a San Giovanni Rotondo. La Cappella del Crocifisso (braccio di sinistra) fu terminato nel 1641; la Cappella di San Filippo Neri (braccio destro) fu terminato l’anno successivo. La Guerra di Castro interruppe l’attività del cantiere; i materiali già presenti nelle vicinanze della chiesa furono impiegati per il restauro dei punti più critici della città. I lavori ripresero nel 1646, anno in cui fu ultimata la tribuna e coperta la crociera. Alla morte di padre Sozi, avvenuta il 25 dicembre 1650, rimanevano ancora da costruire la sagrestia (iniziata l’anno successivo) e da completare la facciata.
L’esterno
La facciata fu realizzata, tra il 1646 e il 1665, da tre capomastri muratori: Mastro Ercolano, Mastro Francesco e Mastro Gaspare, da Perugia e tre scalpellini di Cortona: Mastro Tommaso e il fratello Silvestro Stati scultori, e il cugino Alessandro Leonzi.
I lavoro della Porta Grande si arrestò nel 1646, a causa del fallimento di Luca Ciccia. Il 29 marzo 1653 padre Senso Sensi si accordò con gli scalpellini per terminare il lavoro in sospeso, entro due mesi, in modo da celebrare al meglio la festa del santo, il 26 maggio 1653.
Sopra l’architrave della porta d’ingresso fu posta la scritta IN HONOREM IMMACUL. CONCEPT.DEIP. ET S. PHILIPPI NERII DEO DICATUM.
Il 25 aprile la porta e il suo timpano erano compiuti. La facciata rimase così incompiuta fino all’intervento finanziario di Mons. Marcantonio Oddi, vicario di Perugia, nell’ottobre del 1661. Il 22 maggio 1665 la facciata fu compiuta.
La facciata è concepita come un “grande portale” che fa da raccordo tra lo spazio interno e l’ambiente urbano. L’asse centrale della facciata viene accentuato, nel rilievo e nella decorazione, a sottolineare la zona del portale vero e proprio, punto focale dell’intero prospetto. La scalinata consente di adattare la facciata al forte dislivello ed è un ulteriore raccordo con l’esterno.
Di seguito all’aggetto formato dalle due colonne centrali che continua anche nel secondo piano e nel timpano con molta eleganza, ed in seguito all’altro aggetto che i modiglioni rovesciati formano con i pilastri esterni, l’architetto ha realizzato nell’attico le cornici dei basamenti dei pilastri.
Della cornice che divide i due piani una parte è continuata e una parte è rientrante, perché non forma la quartabona del pilastrino dell’attico. Tutto questo permette di avere un piano e una linea orizzontale su cui possa fermarsi lo sguardo. Ulteriore tocco di eleganza senza intaccare la semplicità dell’insieme sono i rincassi tra un pilastro e l’altro, i quali sono a ciglio vivo senza cornici in modo da distinguere l’architrave dalle lesene laterali; la modanatura è compresa tra i due pilastri.
Altro particolare che è assente negli esempi classici è la base a modo di colonna data alle nicchie del secondo piano, cioè un guscio, un toro, un cordone, poi una scozia e infine un plinto.
È presente una modanatura alla base delle colonne, che è richiamata sotto la balaustra della loggia del finestrone di mezzo, che trovandosi alla medesima altezza delle basi dei pilastri e delle colonne e di quelle delle nicchie forma tutta una linea, come fosse una cornice del basamento superiore.
I capitelli delle colonne e dei pilastri sono uniti tra loro e nel primo ordine è ornato di bugne nel secondo è stato posto, in luogo delle bugne, un festone di fiori male intagliato, poiché essendo troppo grande esce fuori dal fregio.
Sulla facciata corre anche la scritta: MARCUS ANTONIUS ODDUS EPIS. PERUS. ANNO DOM. MDCLXIII
In quanto architettura barocca, presuppone un dialogo con l’intero ambiente in cui è posta. Questa tendenza dell’architettura a vivere la complessità della città è la chiave di lettura che si vuole dare, anche in rapporto con la situazione politico-religiosa del XVII secolo, in piena Controriforma cattolica: un’arte dal linguaggio coinvolgente ed efficace, adatto a raggiungere il numero più vasto possibile di fedeli. Nella mappa di Perugia del 1845 si osserva un assetto in sostanza uguale a quello attuale: di fronte alla chiesa Nuova era l’ex convento dei Cistercensi con la Chiesa di San Bernardo, oggi caserma, e davanti la facciata si apriva la piazza della Chiesa Nuova, oggi piazza Baldassarre Ferri. Il suo spazio allungato e leggermente imbutiforme si sviluppa di fronte alla facciata, piegando in maniera asimmetrica verso nord. Ricavata da un terreno in pendenza, la piazza è arginata nel lato meridionale da un alto gradone che colma il dislivello con la via dei Priori. La struttura urbana preesistente difficilmente avrebbe permesso lo sviluppo di un piano più ampio e coerente; San Filippo rappresenta perciò un episodio isolato di urbanistica barocca che ha però la volontà di integrarsi appieno nel piano urbanistico come auspicato dalla riforma di papa Sisto V.
L’interno
È molto interessante dal punto di vista architettonico poiché si nota un ritorno al classicismo, voluto espressamente dai committenti, mentre a Roma predominante era ancora il gusto barocco. Il merito è senza dubbio dell’architetto Maruscelli, che realizzò i disegni, del direttore dei lavori Olivieri e dei Padri della Congregazione dell’Oratorio che controllarono che nessuna modifica o aggiunta togliesse severità all’architettura.
È una chiesa a croce latina ad unica navata di 37,50 m di lunghezza e di larghezza di 21m nella crociata, 11.25 m nella navata. Ha sei cappelle laterali poco profonde con archi, divisi da pilastri corinzi e con architrave, cornicione ed attico, sempre in stile corinzio, e transetto poco sporgente; il tutto realizzato in travertino proveniente dalle cave di Montemalbe.
Gli altari della crociera sono ben assestati sotto l’arco, e il tono scuro dei marmi è ripreso da una cornice dello stesso materiale, che gira intorno all’arco della nicchia. L’arco si riunisce poi all’architrave attraverso un’elegante targa. La parete si unisce alla volta, formando una decorazione continua. Tutto è armonico anche se forse l’eccessiva doratura della trabeazione dà troppo rilievo allo spartito architettonico, confondendo la maestà della linea. Il fregio, sebbene dipinto per essere chiaroscurato, è un po’ trito, acquisendo un’importanza maggiore del necessario.
La decorazione è contenuta nei fondi, nelle nicchie formate dagli archi, nei triangoli sferici negli intercolumni, in modo che nessun ornamento taglia le linee generali.
L’urna sotto l’altare maggiore è caratterizzato dalla linea curva della cimasa, le palme che escono dal piano superiore, sporgendosi in fuori, sui fianchi dei putti che sorreggono la cornice e servono da laterali all’urna. Ma osservando in dettaglio i particolari citati si trova la leggerezza e l’eleganza dell’arte della rinascenza. La direzione dell’ornamentazione degli interni, che fu affidata prima a Maruscelli poi a P. Baglioni ed è ben presente nella visione d’insieme delle varie parti dell’edificio.
La Chiesa deve la sua impostazione architettonica e il suo impianto iconografico alla chiesa romana di Santa Maria in Vallicella, dove lo stesso S. Filippo volle che tutti gli altari fossero dedicati alla Vergine. La concezione della chiesa perugina è unitaria e incentrata sull’Immacolata Concezione di Maria.
Per la costruzione fu chiamato da Roma Paolo Maruscelli, architetto già al servizio dei padri a Vallicella, poiché gli artisti romani conoscevano bene le disposizioni del Concilio di Trento e i Filippini si erano fatti promotori di queste regole. Il Concilio per la decorazione delle chiese, richiamava gli artisti, soprattutto i pittori, all’osservanze delle antiche leggi, che prevedevano l’illustrazione dei misteri della fede con elementi simbolici e con episodi dell’antico testamento.
Con grande competenza teologica padre Orazio Mancini volle dedicare tutti gli altari della nuova chiesa ai misteri della vita di Maria e volle che gli episodi e i simboli dipinti in ciascuna cappella formassero un racconto continuato, che narrasse ai fedeli le virtù della Vergine.
Il concetto generale è il Trionfo dell’Immacolata.
L’apparato iconografico
Entrando in chiesa e percorrendo tutta la navata, si arriva all’altare maggiore, all’interno del’abside, dove è conservata la pala dell’Immacolata Concezione di Pietro da Cortona; oltre la pala, tutte le pareti sono decorate da affreschi con un preciso programma iconografico.
Il tema si svolge come una spirale che partendo dalla tela dell’altare maggiore, si alza sugli affreschi del catino absidale, con le immagini delle donne dell’antico testamento che furono prefigurazione della Vergine per poi passare attraverso le Cappelle laterali a destra dell’altare, dove si narra la vita di Maria con la Nascita, la Presentazione al Tempio, l’Annunciazione, e proseguendo a sinistra, la Visitazione, la Purificazione e l’Assunzione; da qui si sale alla cupola, dove al centro, in corrispondenza dell’immacolata sottostante, troviamo l’Incoronazione della Vergine da parte della Trinità Celeste: qui la spirale si conclude con l’immagine di Maria concepita ab aeterno in aeternum, ma poi sulla navata appare la “Donna vestita di Sole, per ribadire che è proprio lei la Donna in cui si sono compiute tutte le promesse.
A queste immagini vanno poi aggiunte quelle legate ai due altari del transetto: l’altare in cornu Evangeli dedicato alla Crocifissione e ai dolori di Maria, e l’altare in cornu Epistolae dedicato all’apparizione della Vergine a San Filippo Neri.
L’altare maggiore
L’opera che dà significato a tutto l’apparato iconografico è la tela dell’Immacolata Concezione di Pietro Berettini, noto come Pietro da Cortona. La tela è del 1662 ed è una tra le più importanti opere dell’arte italiana ad illustrare questo tema.
A sinistra è la Vergine giovane, con i capelli biondi, le mani raccolte al petto, col capo reclinato che guarda verso il basso; il suo manto azzurro è scosso dal vento e i piedi posano su una nuvola con la falce di luna. Intorno vi è una luce dorata e il sole e le stelle le fanno da corona.
A destra dall’alto, l’Eterno sembra irrompere da una folla di angioletti e cherubini, stendendo la sua mano destra su di Lei;
In basso, sopra al globo terrestre in cui si intravede l’Italia e il mare Adriatico, un drago spaventato e vinto, guarda verso la Donna, ormai schiacciato dalla sua potenza.
Il tema che il pittore ha sviluppato è quello della “Vergine predestinata”, cioè una predestinazione che fa della futura Madre di Cristo non soltanto una Nuova Eva, ma la vera Donna prevista ab aeterno e riscattata attraverso una redenzione preventiva.
All’interno dell’altare maggiore, in un urna di cristallo, sono conservati i resti mortali di San Fortunato Martire, un soldato romano convertito al Cristianesimo e per questo ucciso a Roma durante le prime persecuzioni. Il corpo proviene dalle Catacombe, da dove viene preso durante la costruzione della Chiesa e traslato dove ora riposa, per dare lustro e importanza alla nuova costruzione. Indossa un’armatura, ovviamente non originale, realizzata su commissione a metà del Seicento proprio per essere inserita nella teca.
Il catino absidale
Il catino absidale è diviso in sette lacunari: uno grande di forma trapezoidale sopra l’altare e quattro più piccoli rettangolari, due per parte e due nel centro della volta. L’incarico di affrescare la zona dell’altare maggiore fu affidata a Gian Andrea Carlone, che già aveva lavorato a Perugia nella Chiesa dei Gesuiti. Il lavoro iniziò nel 1668 e terminò l’anno seguente.
Lacunare semicircolare: due angioletti volano attorno ad una corona di stelle, mentre un terzo, inginocchiato sulle nubi e con le mani giunte, la venera.
Lacunare rettangolare: vi sono dipinti quattro angeli recanti un giglio chiuso in mezzo alle spine Anche la decorazione che incornicia questi affreschi non è casuale ma è formata da inserti fioriti tutti legati alla figura di Maria: fra tanti fiori si possono riconoscere, oltre ai gigli, anche rose, narcisi, gladioli, iris, tulipani e primule.
Lacunare centrale del catino: dei cinque lacunari che girano attorno al cornicione, quello centrale è doppio degli altri e raffigura Ester che intercede per il popolo ebreo davanti al trono di Assuero. Il re stende lo scettro sul capo della regina; questo episodio occupa il centro del catino, perché Ester è prefigurazione dell’Immacolata Concezione. Vi è un doppio legame tra Ester e Maria: Maria intercede per i Cristiani come Ester per i giudei e Maria fa proprie le parole che Assuero pronuncia su Ester, riportate su una targa posta al centro della fascia superiore che fa da cornice all’affresco: “Tu non morirai, perché il nostro decreto è solo per la gente comune”. Non a caso i teologi hanno visto nella figura di Ester una prefigurazione di Maria.
Primo lacunare a destra: Miriam sorella di Aronne canta, battendo il tamburello e danzando insieme alle altre donne ebree, l’inno di Mosè dopo il passaggio nel Mar Rosso, mentre l’esercito egiziano annega. Secondo i Padri della Chiesa Miriam è un altro personaggio che prefigura Maria e la distruzione degli Egiziani rimanda alla sconfitta del male.
Secondo lacunare a destra: Giaele tiene con la mano sinistra un chiodo appuntito sulla fronte di Sisara che dorme, e con la destra un pesante martello per conficcarglielo in testa. Il generale Sisara, dopo la disfatta della sua armata, aveva implorato la disfatta della sua armata, aveva implorato l’ospitalità di Giaele, che lo nascose nella sua tenda ma, approfittando del sonno del suo ospite, afferra uno dei pioli della tenda e con un colpo di martello glielo conficca nella testa. Giaele salvò così il suo popolo uccidendo Siara e mettendo in fuga l’esercito cananeo. I Padri della Chiesa affermano che l’eroina fu ispirata da Dio e questo episodio e i due successivi di Rachele e Debora, alludono alla gloria di Maria, trionfante sul demonio e sui nemici di Cristo e della Chiesa.
Primo lacunare a sinistra: Rachele qui è raffigurata subito dopo aver rubato al padre Labano i terafim,gli idoli e averli nascosti sotto la sella di un cammello su cui si siede, dicendo al padre di non sentirsi bene e quindi di non potersi alzare per salutarlo. In questo episodio Rachele è vista come simbolo della Chiesa che protegge l’umanità, cioè Labano, dal peccato, i falsi dei; la sua posiione accovacciata rimanda anche ad un segno di umiltà
Secondo lacunare a sinistra: Debora è seduta all’’ombra delle querce con l’elmo in capo, la corazza e una grande spada impugnata con la destra, mentre con la sinistra indica l’accampamento degli Israeliti, che ha chiamato in battaglia, guidati da Barak, contro Sisara, alla testa dell’esercito cananeo
Cappella della Natività di Maria
Tutti gli altari delle cappelle laterali sono dedicati ad un episodio della vita di Maria. Si parte dalla Nascita, a seguire la Presentazione al Tempio, l’Annunciazione, la Visitazione, la Purificazione di Maria e l’Assunzione.
Gli affreschi della prima cappella sono stati realizzati dall’artista perugino Anton Maria Fabrizi nel 1642. Al centro della volta è rappresentato, circondato da angeli e puttini. Dio Padre con il braccio destro benedicente e il sinistro appoggiato sul globo con lo scettro in mano.
A sinistra è Giacobbe dormiente colto mentre sogna la “mistica scala”, attraverso cui gli angeli salgono e scendono dal cielo. Alla sommità della scala vi è il Signore che promette a Giacobbe che un giorno la terra apparterrà ai suoi discendenti, il Popolo d’Israele.
Sopra questo affresco un cartiglio recita: VERE DOMINUS EST IN LOCO ISTO.
Nell’arte tardo-bizantina la Scala di Giacobbe è stata interpretata come simbolo di Maria, in quanto mediatrice tra cielo e terra.
A destra vi è sempre Giacobbe che lotta con l’Angelo e sopra l’iscrizione: DIMITTE ME JAM EN ASCENDIT AURORA. Il nuovo nome indica un cambiamento di vocazione e di destino per Giacobbe, che diventa capostipite del popolo d’Israele.
Sulla parete sinistra è raffigurata la Vocazione di Pietro: Gesù chiama il Pescatore che, lasciata la sua barca, si inginocchia ai suoi piedi.
Sulla parete destra è dipinta la Conversione di Paolo, con l’immagine dell’apostolo caduto da cavallo e Cristo gli appare tra le nubi.
Il tema sviluppato in questa sezione è quello del nome a cui è legata la Missione da compiere. È Dio o Gesù Cristo che chiama e invia alla missione e questa chiamata è caratterizzata proprio dal cambiamento del nome. E allora Giacobbe diventa Israele, Simone Pietro e Saulo è battezzato con il nome di Paolo. Maria è l’unica a non cambiare nome poiché è inviata da Dio sulla Terra per la redenzione dell’Uomo ab aeterno
Sui pilastri sono raffigurati i Padri e i Dottori della Chiesa d’Occidente: a destra in alto Girolamo, riconoscibile grazie alla veste Cardinalizia, il libro aperto in mano e il leone ai suoi piedi; Sotto Agostino con il piviale verde, il libro e il pastorale nella mano destra, mentre accanto a lui il putto regge la mitra e una conchiglia. A sinistra, in alto c’è Gregorio Magno col piviale, il triregno e una croce astile, in basso Ambrogio con in mano i flagelli.
Nel sottarco vi è al centro la colomba dello Spirito Santo adorata da due angioletti a figura intera e ai lati altri due angeli musicanti, di cui quello a destra ha in mano una mandola, quello a sinistra tiene sulla mano sinistra un violino e sull’altra un libro aperto, probabilmente uno spartito o il salterio.
Sull’altare c’era il quadro della Natività di Maria di Pietro da Cortona, realizzato nel 1643 e ora alla Galleria Nazionale dell’Umbria. Questo dipinto rappresenta con molti particolari, l’ambiente domestico e caloroso dove Maria viene al mondo. La madre, Anna, dopo aver partorito con l’aiuto di una levatrice, è coricata sul letto. La descrizione della stanza della camera della puerpera è dettagliatissima e nulla è dimenticato:c’è la minestrina per la neomamma, le comari che fanno il bagnetto alla Piccolina in una bacinella, preparando biancheria e fasce per vestirla. Anche in questa opera è sottolineata la predestinazione della Vergine, che in capo una corona di stelle
Cappella della Presentazione al Tempio di Maria
Gli affreschi sono di Giovanni Andrea Carlone eseguiti nel 1662. Al centro della volta è l’arca di Noè all’asciutto e la colomba che esce dalla finestra con un ramoscello di ulivo nel becco. L’arca è uno dei simboli più antichi e raffigurati dell’arte cristiana:già gli scritti apostolici la mettono in relazione con il battesimo ed è vista anche come prefigurazione della crocifissione in merito ai chiodi e al legno con cui è realizzata. I Padri della Chiesa interpretano l’arca soprattutto come immagini della Chiesa, in cui il cristiano trova la salvezza in mezzo alle difficoltà e alla corruzione del mondo
A sinistra c’è Abramo, che parte dalla Caldea con il padre Tare e la moglie Sara per recarsi nella terra di Canaan. Abramo appare perplesso ma Tare gli indica a sinistra, all’orizzonte, il luogo dove andare;si vedono anche alcuni guerrieri con l’elmo.
Dietro di lui Sara solleva il braccio destra come ad indicare la terra di Canaan. Sopra vi è la scritta: EGREDERE DE TERRA ET DE COGNATIONE ET DE DOMO PATRIS TUI.
A destra si vede David che, uscendo dalla tenda reale, versa in terra l’acqua che i tre guerrieri del suo esercito, di cui uno è inginocchiato e due sono in piedi, gli hanno portato in un elmo per offrirla al Signore. Davide, in guerra contro i Filistei che avevano occupato Betlemme, compose allora l’ultimo dei suoi Inni al Signore, profetizzando che il Cristo sarebbe nato dalla sua stirpe nell’ultima età del mondo. Lo spirito si Dio parla per bocca di David e l’offerta dell’acqua al Signore è simbolo dell’offerta di tutta la vita del Re, a sua volta prefigurazione della Vergine che offrì tutta se stessa.
Nella parete sinistra è rappresentata l’offerta di Samuele al Tempio da parte dei suoi genitori: Elkanà, con la moglie Anna, con in braccio il figlio appena svezzato, presentano il figlio al Sommo Sacerdote Eli, che è uscito dal Tempio per venir loro incontro. Al centro del quadro alcuni uomini tengono un vitello per il sacrificio. Samuele è figura di Maria, che viene offerta dai suoi genitori al servizio di Dio.
Il quadro della parete destra rappresenta ancora David che, tolta l’Arca dell’Alleanza dalla casa di Obed-Edom, la riporta nella città di David e la pone nel tabernacolo preparato per custodirla.
Come l’Arca di Noè era figura dell’Arca dell’Alleanza, che conteneva la tavole della Legge, così questo Tabernacolo era figura della Vergine, che la Chiesa chiama foederis arca, perché in Lei erano fondate le promesse della futura redenzione, fatte da Dio all’umanità. Sulla targa sopra il quadro si legge: SURGE PROPERA AMICA MEA FORMOSA MEA ET VENI.
Sui pilastri troviamo i Padri e i Dottori della Chiesa d’Oriente: a destra in basso Giovanni Crisostomo e in alto Gregorio Nazianzeno; a sinistra in basso Basilio e in alto Anastasio.
Nel sottarco vediamo al centro l’arcobaleno tra le nubi squarciate; ai lati una gloria di puttini con una colomba e una coppa.
Questa apparizione luminosa colorata a forma di arco che sembra riunire il cielo e la terra, era anche tra i pagani il segno di un ponte che collegava gli dei con gli uomini. È il segno della nuova alleanza fra Dio e l’uomo che darà origine a una nuova umanità di cui Maria, nuova Eva, sarà il compimento.
Sull’altare era collocata la tela della Presentazione di Maria al Tempio di Luigi Scaramuccia realizzata nel 1665. Oggi è conservata anch’essa alla Galleria Nazionale dell’Umbria.
Anna e Gioacchino presentarono la loro figlia al Tempio affinché continuasse a crescere in perfezione nel luogo più santo d’Israele e consacrando il suo tempo alla lode di Dio. L’iconografia molto ricca indica l’importanza che la Chiesa attribuiva a Maria, completamente promessa a Dio fin dall’infanzia. La bambina sale rapidamente i gradini che la conducono all’entrata del Tempio, dove è attesa dal Gran Sacerdote: Lei è ben conscia del suo ruolo e non volge lo sguardo indietro ai suoi genitori.
Cappella dell’Annunciazione
Gli affreschi sono di Vincenzo Monatti, per ciò che riguarda le figure e di Girolamo Perugini per gli ornati. Al centro della volta c’è ancora l’arca di Noè in mezzo alle acque, su cui si è appoggiata la colomba con il ramoscello di ulivo nel becco.
A sinistra la Sibilla Eritrea, con abito giallo e manto rosso, tiene la penna sollevata in alto con la mano destra, come se aspettasse un’ispirazione, e con la sinistra una spada puntata a terra, alla quale è appoggiata la targa: ERITREA CERNO DEI NATUM QUI SE DE MITTET AB ALTO. Talvolta ha in mano il giglio dell’annunciazione.
A destra c’è, invece, la Sibilla Cumana, seduta a terra, con la veste grigio-azzurra e il manto rosso indica la scrittura: CUMANA CASTAM PRO MATRE PUELLAM DELIGET; solitamente tiene tra le mani una conchiglia, quale attributo alla verginità,
Sulla parete di sinistra è raffigurato Manoach con la moglie, ai quali appare l’angelo che annuncia la nascita di Sansone. Vi è un’errata interpretazione del testo biblico da parte dell’artista, poiché l’angelo è raffigurato con grandi ali sospese in aria, mentre nel testo si parla di un angelo con sembianze umane, tanto che Manoach uccide un capretto per preparargli da mangiare, ma questi rifiuta. Nato nella tribù di Dan, Sansone viene consacrato a Dio fin dalla nascita perché, secondo la tradizione, l’arcangelo Gabriele appare a sua madre annunciandole la nascita di un figlio che avrebbe liberato il popolo d’Israele dai Filistei. Sansone, uccisore dei Filistei, è immagine di Cristo e l’Annuncio della sua nascita fatta dalla moglie di Manoach è prefigurazione dell’annuncio della nascita del Messia che avrebbe sconfitto il male.
Sulla parete destra vi è l’incontro tra Isacco, avvisato da Elièzer, fedele servo di Abramo, e Rebecca, che scende dal cammello coprendosi il volto con il velo, secondo la legge giudaica. Elièzer incontra Rebecca al pozzo, simbolo di vita e fecondità, mentre attinge l’acqua con una brocca. Anche Maria, nell’iconografia più antica dell’Annunciazione, è raffigurata mentre sta attingendo al pozzo e la brocca con cui prende l’acqua è simbolo della Vergine che in quel momento si prepara ad essere a sua volta “recipiente di Gesù”. In Isacco, figlio unico di Abramo, è prefigurato il Cristo, Figlio unigenito di Dio, a cui è data in sposa la Chiesa, cioè Maria, di cui Rebecca è la prefigurazione.
Sui pilastri sono rappresentate le Beatitudini, cioè le Sentenze introduttive al “Discorso della Montagna” pronunciato da Gesù. Sono otto secondo il Vangelo di Matteo. Le Beatitudini sono le “condizioni” per chi è nella Terra a diventare cittadino del Cielo.
A destra in basso è illustrata la frase “Beati i perseguitati in nome della giustizia” con l’immagine di una donna che guarda ai suoi piedi i tre bambini feriti e l’iscrizione: SICUT SOCII PASSIONUM ESTIS SIC ERITIS ET CONSOLATIONIS.
In alto “Beati i Misericordiosi” con una donna che distribuisce pane a due fanciulli che stanno in ginocchio davanti a lei; la scritta dice: IMPOSSIBILE EST HOMINEM MISERICORDEM IRAM NON PLACARE DIVINAM.
A sinistra in basso “Beati gli operatori di pace” con una donna che tiene nella mano sinistra un ramoscello d’ulivo e calpesta un trofeo d’armi; l’iscrizione dice: CONFREGIT ARCUM SCUTUM GLADIUM ET BELLUM. Sopra, una donna con un abito bianco e un manto azzurro simboleggia i “beati puri di cuore”, confermato anche dalla scritta: BEATI MUNDO CORDE QUONIAM IPSI DEUM VIDEBUNT.
Nel sottarco vi sono voli di putti e due teste di angioletti.
Sull’altare la tela dell’Annunciazione di Franco Trevisani è del 1710. Il tema dell’Annunciazione domina nell’iconografia mariana con innumerevoli rappresentazioni anche se generalmente la scena è bipartita con l’angelo a sinistra e la Vergine a destra. In questa tela la Vergine è rappresentata in ginocchio, in preghiera nella sua camera con il libro delle Ore aperto sopra una sedia, mentre l’Arcangelo Gabriele si presenta a Lei, indicando con il dito la colomba dello Spirito Santo. L’angelo è rappresentato in volo, secondo i nuovi stilemi decisi durante il Concilio di Trento, e ha in mano un ramo di giglio che termina con tre fiori a simbolo della triplice verginità di Maria (ante partum, in partu, post partum) e che è posto al centro della composizione come fulcro spaziale e simbolico. Maria, invece, tiene le mani incrociate sul petto nella c.d. posa dell’Humiliatio, cioè nel momento della risposta: “Ecco sono la serva del Signore, avvenga per me secondo la tua parola”.
Cappella della Visitazione
Affrescata come la precedente da Vincenzo Monatti per quanto riguarda le figure e da Girolamo Perugini per gli altri ornamenti, è rimasta incompleta.
Al centro della volta vi è una “M” intrecciata con una “A” e circondata da raggi di luce in cui si intravedono volti di angeli.
A sinistra la Sibilla Samia, in abito verde e manto rosso, tiene la mano destra al petto e con la sinistra la targa: SIBILLA SAMIA UMANO QUEM VIRGO SINU INVIOLATA FOVEBIT. Dietro la targa c’è una croce.
A destra la Sibilla Delfica, una donna seduta con abito celeste e manto giallo; nella sinistra ha un corno e nella destra regge la targa: DELFICA NASCETUR PROPHETA EX VIRGINE. Entrambe le Sibille fanno riferimento sia alla nascita che alla pressione di Cristo.
Anche se le Sibille appartengono al mondo pagano si trovano strettamente collegate al ciclo iconografico dell’Antico Testamento e la loro presenza, nel numero simbolico di otto, non passa inosservato. L’interpretazione che dà M^ale dice che mentre i Profeti annunciavano il Messia ai giudei, le Sibille promettevano un salvatore ai pagani. Anche Lattanzio aveva attribuito alle Sibille delle predizioni relative alla venuta del Salvatore e ai principali avvenimenti della sua vita. Erano sacerdotesse e dovevano essere vergini come le Vestali; San Girolamo attribuisce loro il dono della profezia, come ricompensa della loro verginità. Nell’arte medioevale, diventano dodici come i dodici profeti minori della Bibbia.
Nella parete sinistra è nuovamente rappresentata la Lotta tra Giobbe e l’angelo, in seguito alla quale Giacobbe cambiò il proprio nome in Israele, cioè “forte come un Dio”. In questa immagine la lotta corpo a corpo sembra quasi un abbraccio fra i due contendenti, molto simile a quello tra le due donne raffigurato nella tela. D’altronde anche Giacobbe riconosce nel suo avversario un messaggero di Dio come Elisabetta riconosce in Maria la madre del Salvatore.
Nella parete di destra c’è David che calpesta Golia dopo averlo gettato a terra. Ha le braccia alzate e tiene nella mano destra la fionda e nella sinistra la pietra che ha ucciso il gigante. La Chiesa ha semore visto in David un’immagine del Cristo; Sant’Agostino dice che David che calpesta il gigante ucciso è figura di Cristo che sconfigge il Demonio. Soranzo interpreta il giovinetto che atterra il prepotente come il compimento delle parole del Magnificat “ha rovesciato i potenti dai torni, ha innalzato gli umili”.
Sui pilastri continua la serie delle Beatitudini: a destra in basso Beati quelli che piangono con una donna a mani giunte che piange e la scritta PRAESENS LUCTUS LAETITIAM GENERAT SEMPITERNAM; in alto Beati i miti con una donna velata che tiene tra le braccia un agnello e sotto l’iscrizione MANSUETI HEREDITABUNT TERRAM.
A sinistra Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia con una donna che ha nella mano destra una lancia e nella sinistra tiene le bilance, mentre il demonio tenta di far traboccare con la mano il piatto sinistro; sotto l’iscrizione ESURIENTES IMPLEVIT BONIS. In alto una donna tende le mani per chiedere l’elemosina. È una errata interpretazione della frase Beati i poveri di Spirito. L’iscrizione recita: REGNUM COELERUM PAUPERTATE VENALE.
Nel sottarco un volo di putti.
Sull’altare la Visitazione di Giuseppe Passeri del 1710.
La scena dell’incontro tra Maria ed Elisabetta, dal punto di vista iconografico, presenta moltissime varianti che riflettono l’evoluzione del culto mariano nei secoli. In queste tele è raffigurato l’aspasmos, cioè l’abbraccio tra le due cugine, interpretato come un vero e proprio scambio di saluti. All’incontro partecipano anche i rispettivi mariti, Giuseppe e Zaccaria, e la scena si svolge all’aperto, anche se questo contrasta con il testo evangelico, e per meglio sottolineare l’ambiente esterno si nota la presenza di piante ed elementi architettonici.
Cappella della Purificazione di Maria
Gli affreschi sono di Bernardino Gagliardi. Al centro della volta vi è una finta lanterna o cupolino, in cui si vede la Colomba dello Spirito Santo in un fascio di luce, circondata da tante teste di angioletti
A sinistra è seduto Mosè che ha in mano le Tavole della Legge, su cui sono incise le parole “Legge di pietra”. Sulla targa sottostante c’è, invece, la scritta SACRIFICA MIHI OMNE PRIMOGENITUM, in riferimento all’episodio della Presentazione di Gesù al Tempio secondo la legge giudaica.
A destra il re David è seduto e suona l’arpa; ai suoi piedi un libro porta la scritta “Libro dei Salmi”.
Sulla parete sinistra vi è il vecchio Simeone, che aspetta sulla porta del tempio Maria e Giuseppe che si vedono arrivare in lontananza a sinistra; in primo piano due donne con un bambino hanno portato l’offerta per il sacrificio: un agnello e una colomba. Sopra vi è la targa EXPECTANS CONSOLATIONEM.
La narrazione prosegue sulla parete destra dove si vede la Vergine che esce dal Tempio, mentre Simeone in ginocchio ringrazia il Signore per aver visto il Salvatore, così come viene espresso anche dalla targa: VIDERUNT OCULI MEI SALVATOREM TUUM.
Sui pilastri vi sono le Sibille.
A destra in basso c’è la Sibilla Frigia, con una tunica bianca e sopratunica celeste; in testa ha un velo girato sotto il mento che le fascia le guance e la fronte. Nella mano sinistra ha un pane e tiene la destra sollevata in alto con l’indice disteso; ha una tavola con le parole: QUO MISEROS LEVARET. Sopra c’è la Sibilla Cimmeria in abito rosa e manto verde, che le scende dal capo e le fa ombra in fronte; ha nella mano destra una torcia accesa e la scritta dice: PER QUEM GAUDEBUNT MULTI.
A sinistra in basso la Sibilla Persica, con abito giallino e manto rosso e in testa un velo bianco legato dietro la nuca, poiché annuncia la venuta del Salvatore in temrini “velati”. Solleva con la mano sinistra una rosa e con la destra una penna per scrivere; è appoggiata a una tavola con la scritta: CASTA NASCETUR VIRGINE. Sopra c’è la Sibilla Libica, con una tunica bianca, sopraveste gialla e manto viola buttato sulle spalle;alza la sinistra con l’indice teso e sulla palma ha una lanterna con una lanterna accesa, poiché profetizza con chiarezza la nascita del Salvatore che illuminerà le tenebre. A destra un cartello con le parole: AETERNUS TEMPORE.
Nel sottarco al centro vi sono due angioletti: uno tiene un agnello tra le braccia, un altro lo adora e sotto c’è l’iscrizione: ABSQUE MACULA. Ai lati vi sono altri quattro angioletti: due da una parte, di cui uno con in mano un’infula e sotto la scritta: SACERDOS IN AETERNUM, e due dall’altra, uno dei quali ha in mano una corona d’oro e sotto c’è l’iscrizione: REX MAGNUS: tutti e tre questi simboli, con le rispettive epigrafi, fanno riferimento al Bambino che è Sacerdote, Re e Profeta.
Sull’Altare vi era la tela con la Presentazione di Gesù al Tempio di Andrea Sacchi del 1613, anche essa conservata alla Galleria Nazionale dell’Umbria.
Questo episodio è spesso associato alla Purificazione della Vergine e alla festa della Candelora. Maria e Giuseppe, infatti, si recano al Tempio per consacrare il figlio al Signore, come descritto dalla legge mosiaca, che prevedeva il sacrificio a Diodi ogni primogenito, che poteva essere riscattato pagando cinque sicli d’argento. La madre poi era ritenuta impura per sette giorni dopo la nascita del bambino e per altri trentatre giorni non potevano entrare nel santuario fino al rito della purificazione, che avveniva tramite il sacrificio di un agnello e di una tortora o colombo, ma “se non ha mezzi per offrire un agnello, prenderà due tortore e due colombi”: era il sacrificio dei poveri. La Vergine tende il Bambino al vecchio Simeone, che si prepara a riceverlo con le mani velate, secondo il cerimoniale, in segno di rispetto e di adorazione. È un servo a portare il cesto con le tortore, mentre Giuseppe ha in mano una candela accesa, riferimento a Gesù, che Simeone chiama “Luce per rivelarti alle genti”.
Cappella dell’Assunzione
Gli affreschi sono opera di Anton Maria Fabrizi, allievo di Caracci. Al centro della volta c’è la mistica nube. La nube è sempre segno della presenza di Dio e questa cappella è di fronte a quella della Natività: e come là, al centro della volta c’è il Padre Eterno che dalle nubi invia Maria al Mondo, così qui, ak centro della volta la nube è segno di Dio che attende Maria nella gloria eterna.
A sinistra un concerto di angeli che, secondo la tradizione, per tre giorni fu sentito suonare al sepolcro di Maria: due angeli suonano la mandola, due cantano e uno con la palma in mano batte il tempo. Sopra una targa con le parole GYRUM COELI CIRCUIVI SOLA. A destra altri angeli suonano il violino, le viole e il flauto e due reggono spartiti musicali, con l’iscrizione: ET PROFUNDUM ABYSSI PENETRAVI.
Negli affreschi delle pareti è rappresentata l’Assunzione di Maria secondo la narrazione di Giovanni Damasceno (V sec d.C) in un’Omelia per la festa dell’Assunzione.
Nella parete sinistra vi è la morte della Vergine. Nessun Vangelo racconta la vita di Maria dopo la diaspora degli Apostoli; secondo la tradizione, la Madre di Dio sarebbe morta ad Efeso o a Gerusalemme, ma bisogna ricorrere agli Apocrifi e ai racconti dei Padri della Chiesa, raccolti e sistemati in un unico racconto da Jacopo da Varagine nella Leggenda Aurea nel 1200, per conoscere il ciclo della sua glorificazione.
La scena mostra Maria addormentata e attorno al suo letto vegliano gli undici apostoli che, pur sparsi nel mondo a predicare il Vangelo, miracolosamente si trovano tutti a Gerusalemme, tranne Tommaso. Il gruppo le cui figure sono ben riconoscibili, è compatto, ma non impedisce di intravedere il corpo di Maria. Sopra la cornice del quadro vi è una targa sorretta da due angeli con l’iscrizione: VENI DA LIBANO, VENI CORONABERIS.
Nella parete destra è rappresentata, invece la seconda parte del racconto: come il Figlio, Maria resta tre giorni nella tomba, poi la sua anima, che era stata elevata al cielo, è riunita al suo corpo e lei resuscita. Tommaso, andato per adorarne il corpo, trova il sepolcro vuoto; al suo posto solo rose e gigli che emanano un profumo buonissimo. Sopra vi è la targa con la scritta: RESPICIENTES INTUEMUR TE.
Sui pilastri sono raffigurate le quattro Virtù Cardinali. A destra in alto la Temperanza che solleva con la mano destra un’anfora e versa l’acqua in un vaso che tiene con la sinistra; in basso, la Fortezza con un braccio stringe una colonna. A sinistra, in alto, la Prudentia, che ha una serpe attorcigliata al braccio destro e nella sinistra tiene uno specchio su cui si guarda. Richiama il passo evangelico: “siate prudenti come serpenti”. In basso c’è la Giustizia, che con la mano destra impugna una spada rivolta in alto e con la sinistra tiene le bilance.
Nel sottoarco le tre virtù teologali. A sinistra la Fede vestita di bianco col manto rosso; nella mano destra ha un calice da cui esce un’ostia e nella sinistra ha una crocetta. Al centro la Carità: una donna vestita di viola col manto rosso, che tiene al petto un bambino e due fanciulli grandicelli stanno al suo fianco. A destra la Speranza, con abito rosso e velo bianco, sostiene l’occhio di un’ancora a tre marre posata per terra.
Le Virtù Teologali e Cardinali vogliono indicare che Maria praticò le virtù cristiane come nessun’altra creatura umana.
Sull’altare vi era la tela dell’Assunzione di Guido Reni del 1637, attualmente conservata al Musèe de Beaux Arts di Lione. Reni fa elevare la Vergine tra gli angeli in atteggiamento di orante con le mani giunte, mentre una corona di angeli la ammirano dalle nuvole e la circondano: è la figura di una giovane con i capelli lunghi, piena di innocenza e di raccoglimento, una sorta di “idea” arricchita da una teologia ormai ben precisa. Indossa una veste rossa, simbolo della sua umanità, e un manto azzurro, segno della sua maternità divina. Maria Assunta campeggi da sola sullo sfondo del cielo e questa idealizzazione porta spesso a confondere l’Assunta con l’Immacolata, ma è possibile che a volte si voglia dare di proposito una visione simultanea dei due misteri. Vale la pena comunque notare come l’Immacolata Concezione si distingua dalla Vergine Assunta, in quanto la prima scende e ha gli occhi che guardano verso la Terra, mentre la seconda sale e ha gli occhi alzati verso il cielo dove Cristo la attende.
La cupola
La cupola è stata affrescata per ultima nel 1728 e doveva rappresentare il Trionfo di Maria Regina del cielo e della terra. Il programma iconografico quasi sicuramente del monaco camaldolese Pietro Canneti, sapiente teologo e intenditore d’arte.
Tutta la composizione è divisa in sei gruppi, che rappresentano le sei età del mondo, così come sono spiegate dai Padri, specialmente Agostino, che nella Seconda Omelia sul Vangelo di Giovanni fa riferimento a sei giare delle Nozze di Cana come simbolo delle età del mondo, dalla creazione alla fine dei tempi.
Questo soggetto è svolto nell’ampio giro della calotta: è un popolo di figure unite dal solo pensiero di contemplare estasiate il trionfo della Vergine; tutto l’Antico Testamento, come si è potuto vedere, è un succedersi di figure e di fatti allusivi all’opera futura di Maria.
Nell’affresco della cupola si distinguono bene i vari gruppi e i personaggi che primeggiano in essi e specificano chiaramente il periodo storico che rappresentano.
Al centro della composizione vi è la scena dell’Incoronazione della Vergine che. Inginocchiata con le mani incrociate sul petto, riceve la corona del stelle dal Figlio; ha la veste bianca e il manto azzurro. Alla destra di Cristo vi è il Padre Eterno con lo scettro nella mano sinistra e con la destra benedicente. Sopra al gruppo aleggia la colomba dello Spirito Santo.
Dalla lanterna scende una folla di Angeli e Serafini che danzano,spargono fiori o cantano al suono dell’organo e delle viole; quelli che chiudono la corona ai piedi di Cristo portano a Maria Regina del cielo, rami di ulivo, fasci di rose e gigli. Vicino alla trinità vi sono da un lato gli arcangeli Michele, che spicca per l’armatura e lo scudo con la scritta Yahweh, il nome di Dio, Gabriele con in mano un giglio e Raffaele con in mano il pesce che servì per la guarigione della cecità di Tobia; dal lato opposto un angelo con il vessillo della croce.
Le età del mondo sono così suddivise: da Adamo a Noè/ da Noè ad Abramo/ da Abramo a David/ da David all’esilio Babilonese/ da Babilonia a Giovanni Battista/ dalla Nascita di Gesù alla fine del mondo.
Da Adamo a Noè: la scena inizia da sinistra con la schiera di beati, a partire dal giovane Abele, prefigurazione di Cristo, che solleva la fiaccola accesa e ha vicino un agnello coricato sopra una palma, simbolo del sacrificio e del martirio. Accanto a lui i progenitori, Adamo ed Eva, inginocchiati con le mani giunte e gli occhi rivolti verso la Donna che ha sconfitto il serpente.
Da Noè ad Abramo: la seconda età è rappresentata da Noè, padre della nuova generazione, riconoscibile dall’Arca, che ha con sé la moglie e i figli Sem e Jafet.
Da Abramo a David: la terza età ha il maggior numero di figure, essendo molti e tutti di grande importanza, i fatti storici di questo periodo. Vi è Abramo con Isacco che lo sta ad ascoltare in ginocchio con le mani giunte e, accanto, un fascio di legna per il sacrificio e un angioletto che tiene in mano il coltello. Dietro di lui la moglie Rebecca con le nipoti Lia e Rachele, figlie di Labano, sposate da Giacobbe, che si alza maestoso con un fascio di virgulti fioriti per indicare la sua numerosa progenie. Costui parla con Giuseppe in abiti regali, con uno scettro sulla destra e una coppa d’argento nella sinistra, come segno del dono avuto da Dio di interpretare il sogno del faraone. Dietro le spalle di Giuseppe sporgono le teste di Giuda ed Efraim, capi delle due Tribù alla cui discendenza era riservata la gioia di dare al popolo d’Israele il Salvatore promesso. A metà della calotta, di fronte alla scena dell’Incoronazione della Vergine, si alza maestosa la figura di Mosè, liberatore del popolo d’Israele: poggia la mano sulle tavole della Legge e con la sinistra impugna la verga miracolosa. Al suo fianco Aronne in abiti sacerdotali, con l’efod sul capo, solleva il turibolo fumante, mentre delle fanciulle danzano e suonano il cembalo dopo il Passaggio del Mar Rosso. Al lato opposto c’è Giosuè, con l’elmo e la corazza in mezzo alla quale spicca la figura del sole, che guarda il cielo nella speranza che il tramonto ritardi fino a quando non abbia sconfitto il nemico. Accanto a lui Rahab, la peccatrice, che accolse gli esploratori israeliti e sposando Salomone entrò a far parte degli antenati di David e con il pugnale nella mano sinistra, Sansone con la mascella d’asino e Barak, che tiene aperto un papiro e mostra agli altri due il Cantico di Debora. Chiude il gruppo Gedeone, che ha in mano il vello impregnato di rugiada, simbolo del giusto che secondo Isaia doveva discendere dal cielo come rugiada sull’erba inaridita. Vi è poi Giuditta con la spada con cui tagliò il capo ad Oloferne, ed è figura di Maria che vince sulle potenze infernali; infine vi sono Rut, con in mano un fascio di spighe, e la nuora Noemi, che sposando Booz, entra nella genealogia di Cristo e della Vergine.
Da David all’esilio Babilonese: il quarto gruppo è formato dal re David, che suona l’arpa, guardando ammirato il trionfo della donna della sua stirpe, annunciata dal profeta Isaia. Questa età, forse la più interessante, è rappresentata solo dal re, la figura più compiuta di Cristo, per cui non occorrevano altri personaggi, perché in lui si impernia tutta la storia dei re d’Israele.
Da Babilonia a Giovanni Battista: l’età della schiavitù babilonese è aperta dal profeta Geremia, vestito di bianco e con il capo coperto in segno di lutto e penitenza, che poggia la mano su una lastra di marmo con incise le Lamentazioni. A fianco c’è il re Giosia, della stirpe di David, distruttore degli idoli e restauratore del culto del vero Dio; sotto il profeta, seduta sulle nubi come sul trono, si vede Ester con la corona regale e lo scettro. Accanto a lei il giudice Jefte con elmo e corazza, che sta parlando con uno dei principi di Galaad, venuto a nominarlo loro condottiero; a fianco ha la sua unica figlia che consacrò al Signore. La ragazza, insieme ad un’altra che le fu compagna, ha il capo cinto con le bende verginali, e ambedue sono in adorazione di Maria, che fu la prima con in mano la palma del martirio, che guarda la Vergine distendendo le braccia sopra i suoi sette figli. Sotto il gruppo Matatia tiene la lancia nella mano sinistra e ha alla destra il figlio Simone alla sinistra Giuda Maccabeo.
Dalla Nascita di Gesù alla fine del mondo: la sesta età si apre con alcuni bambini, fatti trucidare da Erode, che tengono le palme del martirio. In cima al gruppo Anna ha il braccio attorno al collo di Elisabetta con le mani giunte e le indica la sua gloriosa figliola; al suo fianco il vecchio Simeone con in testa l’Efod; sotto Anna c’è Gioacchino, mentre sotto Elisabetta c’è Zaccaria. Davanti a loro Giuseppe, a cui sta davanti un angioletto con il giglio della purezza, e tutti e tre contemplano il trionfo di Maria. Chiudono il gruppo i tre Magi con le corone regali; vicinissimo a Maria c’è Giovanni Battista, che volge la faccia indietro verso i suoi parenti e accenna con la destra alla Madre di Dio, in cui vi è il compimento di tutte le promesse. La presenza di Stefano, con la dalmatica rossa e un sasso in mano, segna l’inizio della schiera dei martiri del Nuovo Testamento.
La navata
Le fasce della volta della navata corrispondenti ai quattro pilastri che dividono le cappelle, incrociandosi con le due fasce longitudinali, formano quattro lacunari rettangolari: tre grandi in corrispondenza delle cappelle e uno più piccolo in corrispondenza dei coretti e delle porticine laterali. Gli affreschi erano stati affidati ad Appiani, che però ne dipinse solo due: la gloria dei putti e la Donna dell’Apocalisse, mentre gli altri due affreschi dovevano raffigurare Giuditta e Oloferne e l’Incontro tra la regina di Saba e Salomone.
Non si sa se padre Francesco Mandolini, che nel 1761 dirigeva i lavori, pensasse che i due soggetti storici non andavano d’accordo con gli altri due allegorici, ma è chiaro che i due quadri storici avrebbero richiesto, anche con la loro prospettiva architettonica e con gli atteggiamenti delle figure, una composizione completamente diversa dagli altri, dove non vi sono edifici e le figure sono liberate nel cielo in un gran movimento.
Furono dunque rappresentati altri due soggetti presi dall’Apocalisse.
Attualmente partendo dalla porta d’ingresso si vedono:
L’Angelo dell’Apocalisse disceso dal cielo, che ha in mano la chiave dell’abisso e una lunga catena con cui lega il diavolo e lo chiude all’inferno.
San Giovanni, nell’isola di Patmos che sta sopra uno scoglio con un ginocchio a terra e con le braccia tese verso il cielo; accanto a lui c’è l’aquila, il suo simbolo e dietro un libro. In alto, fra nubi e teste d’angeli, c’è la figura di Dio Padre che gli ordina di scrivere in un libro quello che vedrà e di mandarlo alle sette chiese dell’Asia.
La Donna vestita di sole con la luna sotto i piedi e sul capo la corona di dodici stelle: sono tra i segni della Donna dell’Apocalisse, un’iconografia semplice, ma che divenne molto popolare. Con la lettura tipologico-allegorica del Cantico dei Cantici e del Libro della Sapienza i segni cosmici diventano così una metafora della bellezza e della purezza di Maria. La Donna ha anche le ali, immagine molto rara in questo periodo e sotto di lei si vede il dragone dalle sette teste incoronate.
A destra si vede un putto, ritto sopra un leone spirante fuoco, la bestia che fa piovere fiamme sopra la terra.
Gloria di putti volanti nel cielo sereno.
Il transetto
La decorazione del breve transetto della chiesa, che termina da un lato con la cappella di San Filippo Neri e dall’altro con la Cappella della Crocifissione, non rientra propriamente nel programma iconografico dell’ Immacolata Concezione, ma è comunque un completamento delle immagini dell’altare e un collegamento con gli episodi dell’Antico Testamento. Inoltre c’è anche un legame con il tema della Vergine, sia per quanto riguarda l’Addolorata, sia in merito a San Filippo, di cui viene raffigurata la visione che egli ebbe di Maria e il Bambino.
La Cappella di San Filippo
I soggetti della decorazione dipinti sulle volte e sui sordini della parete, voleva magnificare con simboli e fatti storici allusivi le virtù caratteristiche del Santo, che furono la base e il fondamento del suo apostolato: la purezza virginale, la carità verso Dio e il prossimo e la saggezza delle sue parole gli meritarono il dono della sua profezia e dei miracoli. Secondo Siepi ifatti biblici dipinti in questa cappella sono relativi alla carità di San Filippo.
Nel quadro centrale della volta si vede una gloria di angeli, nella quale sono riassunte simbolicamente le virtù della carità, della verginità e sapienza, che vengono anche illustrate nei quadri che compongono il resto della decorazione. In questa decorazione sono rappresentati tre angeli volanti, di cui quello centrale porta il libro, simbolo della sapienza e dello spirito profetico; quello a destra ha un giglio per mano ad indicare la verginità; quello a sinistra reca un cuore fiammante immagine della carità ardente.
Nel sordino a sinistra è rappresentato Mosè che si avvicina al roveto ardente, dove Dio gli affida il compito di liberare il popolo dalla schiavitù d’Egitto. Secondo l’interpretazione di Ricci questa scena ricorda le difficoltà e le contraddizioni sofferte da San Filippo da parte della Curia romana. L’interpretazione di Soranzo invece riconduce l’immagine del rovereto all’integrità virginale di Maria, rimasta sempre intatta come il rovereto di Maria. Considerando che l’intero ciclo figurativo della chiesa è riconducibile alla storia della Vergine, la seconda interpretazione è la più plausibile.
Nel sordino di destra è rappresentato Daniele nella fossa dei leoni, che per ragioni prospettiche è un anfiteatro cinto da alte mura. In primo piano si vede il profeta Abacuc che trasportato dall’Angelo del Signore dalla Giudea a Babilonia, reca il canestro con la polenta e le focacce per il sostentamento del profeta. Si narra, infatti, che Abacuc non conoscesse Babilonia e pertanto l’Arcangelo Michele lo prese per i capelli e lo portò nel posto esatto in cui si trovava la fossa dei leoni. La figura di Daniele è associata a San Filippo per la sua purezza e per l’amore dei fratelli.
Sempre a sinistra, nello scomparto della volta, si vede Elia che restituisce alla vedova di Sarepta il figlio tornato in vita. Questo episodio narra che il profeta, preso il bambino dalle braccia della madre, lo portò nella sua stanza, lo depose sul letto e dopo aver pregato ottenne la grazia che risuscitasse.”Elia prese il bambino, lo portò giù nella casa dalla stanza superiore e lo consegnò alla madre”. Questa scena allude al miracolo compiuto dal santo nel riportare in vita un giovinetto. San Filippo è paragonato a Elia anche per la purezza d’animo, poiché i Padri della Chiesa affermano che il profeta visse in perpetua verginità. Sopra il dipinto vi è un tondo con l’immagine del pellicano, simbolo dell’amore che dona tutto se stesso e dunque simbolo di Cristo.
Nello scomparto della volta a destra vi è Geremia che, oltre a ripetere i simboli di verginità e carità, esprime la tenera compassione dell’animo per i mali spirituali e temporali del prossimo, tanto che il profeta della Lamentazioni invocava e pregava la salvezza dei suoi concittadini e quindi rappresenta la carità operosa di San Filippo. Qui il profeta è rappresentato nel momento in cui riceve da Dio la missione di avvertire il popolo d’Israele dei castighi che lo colpiranno, simboleggiati dalla caldaia bollente che gli si avvicina da settentrione, dove vi erano i Caldei e i Babilonesi, che trassero in schiavitù il popolo d’Israele.
Sopra la figura di Geremia vi è il tondo con la fenice, uccello favoloso, rappresentato fin dalle origini dell’arte cristiana, in quanto simbolo di rinascita e immortalità: si credeva infatti che dopo aver preso fuoco, rinascesse dalle sue ceneri dopo tre giorni.
Nell’iscrizione scolpita nel cartiglio, posto in mezzo al timpano spezzato che serve da coronamento all’altare, è scritto: SICUT ODOR AGRI PLENI. Sono le parole che Isacco pronunciò prima di benedire Giacobbe.
Sull’altare vi è una tela, copia di quella di Guido Reni che si trova nella chiesa di S. Maria in Vallicella e rappresenta la visione della Vergine col bambino da parte di san Filippo.
Sotto il quadro, in un vaso d’argento seicentesco, è conservata la reliquia di parte cuore del Santo. Questo è visibile attraverso un’apertura. Fu portata a Perugia nel 1625 da padre Senso Sensi.
La Cappella del Crocifisso
Occupa il braccio sinistro del transetto, cioè in cornu evangeli, fu completato nel 1646. La cappella rimase con la sola imbiancatura per quasi cent’anni, finchè i Padri Filippini pensarono di farla dipingere. L’incarico degli affreschi fu affidato a Sebastiano Ceccarini di Fano, discepolo di Francesco Mancini. Le storie scritturali dipinte fanno riferimento all’opera di redenzione.
Al centro della volta è dipinto un gruppetto di angeli recanti gli emblemi della passione: due angeli reggono la colona, uno ha nella mano destra la corona di spine e nella sinistra i chiodi della croce, mentre il quarto angelo tiene spiegato fra le mani il velo della Veronica con impresso il volto di Cristo.
Nel sordino di sinistra è rappresentato un famoso episodio, che è prefigurazione del sacrificio di Cristo: è il racconto di Abramo e Isacco.
Nel sordino di destra è raffigurato il serpente di bronzo costruito da Mosè su ordine di Dio e issato su un palo a forma di tau per l’adorazione del popolo israelita e la sua salvezza dal morso delle serpi velenose: è chiarissima l’allusione a Cristo, issato sulla Croce per la salvezza degli uomini.
Nello scomparto della volta a destra vi è, poi, l’episodio di Caino e Abele, la cui uccisione rappresenta la contrapposizione tra il giusto e il malvagio. Se Abele è sempre stato interpretato come immagine di Cristo, Caino è spesso accostato a Giuda. Nel Nuovo Testamento, Matteo riporta un discorso di Gesù che parla di Adele come il primo dei giusti perseguitati e assassinati . Generalmente è rappresentato nell’atto di colpire il fratello, accasciato a terra, con un bastone, una clava o una mascella d’asino come quella usata da Sansone per uccidere i Filistei. Sopra il quadro di Abele vi è l’immagine dell’agnello con sette corna, posato sul libro chiuso con sette sigilli; è l’immagine di Cristo che si consegnò in mano dei suoi aguzzini come era profetizzato da Isaia.
Nello scomparto della volta di sinistra è narrato invece l’episodio del leone ucciso da Sansone a mani nude; questa scena è tra le preferite dell’arte paleocristiana e soprattutto in epoca romanica è proposta in relazione alla vittoria di Cristo sulla morte e sul demonio.
Sull’altare vi è il crocifisso con le statue della Vergine e di San Giovanni evangelista.
La sacrestia
L’ingresso è preceduto da un cancello in ferro battuto del Seicento. È edificata quasi interamente sotto terra. Ha subito importanti rimaneggiamenti nel corso dei secoli, come la demolizione del soffitto a volta. Nell’atrio sul soffitto una tela di Francesco Appiani e nella parete di fronte all’ingresso un lavatoio in marmo rosso locale. Nella Sacrestia sulla parete di fondo una pala d’altare di Vincenzo Pellegrini, detto il Pittor Bello, raffigurante la Vergine Immacolata tra S. Michele Arcangelo e Santa Maria Maddalena. Sul soffitto un dipinto di Valentino Carattoli e Francesco Appiani del 1750.
San Filippo Neri
Nasce a Firenze il 21 luglio 1515, da una famiglia nobile caduta in disgrazia. Nel 1534 è ospite a Roma di Galeotto Caccia per il quale svolge mansioni di precettore in cambio di vitto e alloggio. Nel giorno di Pentecoste del 1544, presso le Catacombe di San Sebastiano, fu colpito al torace da un globo di fuoco con una tale violenza da rompergli due costole. Il 23 maggio 1551 fu ordinato sacerdote. Andò ad abitare nella Confraternita della Carità, dove sperimentò il metodo dell’Oratorio: incontri di meditazione, di dialogo spirituale, di preghiera. Filippo radunò negli Oratori di sua istituzione i ragazzi che fino ad allora vivevano in povertà e violenza per strada. Li faceva giocare sotto la sua vigilanza e cercava di educarli Nel 1575 papa Gregorio XIII gli affidò la piccola chiesa di Santa Maria in Vallicella, dove morì all’età di ottant’anni il 26 maggio 1595. È stato proclamato santo nel 1622 e la sua festa è il 26 maggio.
SESTA STATIO: LA CHIESA DEI SANTI SEVERO E AGATA
La chiesa
La chiesa dei santi Severo e Agata sorge sul luogo di un’antichissima cappelletta dedicata a Sant’Agata, attestata dal 1163. Il Comune costruì la chiesa attuale tra il 1290 e il 1317 su concessione di papa Bonifacio VIII dopo la demolizione della chiesa parrocchiale di San Severo di Piazza per la realizzazione di una nuova ala di Palazzo dei Priori.
La facciata
L’esterno ha una facciata con portale a sesto acuto sormontato da una cuspide su due colonnine pensili e ornato da cornici e cordoni in travertino in stile gotico del XIV secolo; sulla sinistra, la lapide commemorativa dedicata a don Piastrelli, educatore di tanti giovani cattolici alla politica cittadina, tra cui lo stesso Capitini.
L’interno
L’interno conserva l’austera struttura ogivale del precedente impianto romanico e ha due semplici campate gotiche che poggiano su sei mezze colonne murate nelle pareti. Le vele delle campate sono tutte affrescate con stelle su fondale azzurro, realizzate in stile nell’Ottocento. Le uniche originali sono le due di sinistra della seconda campata, dove sono evidenti i resti di due figure, probabilmente due dei quattro evangelisti che dovevano ornare l’intero soffitto della campata. Sulle pareti sono visibili alcuni resti di affreschi trecenteschi: entrando dal lato destro ci troviamo davanti due affreschi, uno sopra l’altro molto danneggiati ma ancora leggibili; quello più in basso è una delle più antiche rappresentazioni della Trinità Tricefala, e uno di fronte che guarda lo spettatore,benedice con la mano destra, mentre nella sinistra tiene un libro dalla copertina scarlatta; l’affresco superiore invece ha il tema di San Francesco che riceve le Stimmate Sulla controfacciata si può ammirare invece una teoria di Santi, risalenti al XIII secolo. A sinistra le Storie di S. Severo e Martirio di San Biagio, di pittore seneseggiante (forse allievo di Simone Martini). La porzione meglio conservata, grazie ad un recente restauro, conclusosi proprio ad inizio anno, è quella più bassa, dove è riprodotto ad affresco un trittico, in cui nella parte centrale è riconoscibile S. Agata che sulla mano destra regge il vassoio con i seni tagliati. Altri simboli riconducibili all’esperienza della santa sono il velo, simbolo di verginità e la palma simbolo di martirio ; sull’altare maggiore vi era un pentittico del 1430 di Lello da Velletri, allievo di Gentile da Fabriano, unica opera conosciuta dell’artista poiché vi appone la sua firma, oggi conservato alla Galleria Nazionale dell’Umbria. Dietro l’altare maggiore accanto all’accesso alla sacrestia vi sono i resti di una Crocifissione, affresco di Mariano di Ser Austerio, che ha evidenti somiglianze con l’analogo soggetto realizzato da Pietro Lorenzetti nel transetto sinistro della basilica inferiore di San Francesco ad Assisi. Il fonte battesimale e i bassorilievi della Via Crucis sono di E. Cagianelli (1936). L’altare, in stile gotico, in marmo rosso, apparteneva all’Oratorio di San Bernardino e dall’inizio del Novecento è qui conservato. Le panche e gli arredi, in legno, ricordano influenze tedesche.
ALTRI LUOGHI DI INTERESSE
A. PORTA SANTA SUSANNA
L’aspetto attuale della Porta non è quello originario del XIV secolo, in quanto più volte rimaneggiata durante i secoli. Ancora nell’Ottocento era visibile un affresco della Vergine oggi completamente scomparso. All’esterno se ne vede la sopraelevazione più tarda, in mattoni, decorata da un grifo scolpito nella pietra rosa. Lungo viale Pellini, sul lato sinistro della porta, la cinta medievale non è sopravvissuta alle demolizioni novecentesche. L’unica porzione rimasta è inglobata all’interno del percorso di scale mobili, nel trattato sottostante il viale.
B. PORTA TRASIMENA
Porta Trasimena, costruita intorno al III secolo a.C. e accesso occidentale del decumanus maximus della cinta muraria più antica della città. Da qui si inizia a percorrere via dei Priori. Questa porta raffigurava nella simbologia etrusco-romana la regione degli Inferi e di conseguenza il regno dell’Aldilà governato dalle divinità di Plutone e Persefone. Per il suo rapporto metafisico con la morte, con il tramonto, essa è sinonimo di negatività e di sventura e nel contempo di femminilità. Quella che attualmente vediamo è una ricostruzione di epoca medievale, caratterizzata dall’impiego di un altissimo arco ogivale, esaltato dal nitido biancore della pietra. Nella sua fronte esterna presenta i piedritti originali di epoca etrusca. Al vertice dell’arco ogivale è presente la simbologia del golgota con a destra la luna nascente e a scendere, scolpiti a rilievo, una croce e una squadra.
Porta Trasimena è attestata anche con il nome di “Arco di San Luca”, in riferimento all’attigua chiesa dei Cavalieri di Malta; “Porta della Luna”, “Porta Senese” o “Porta Luzia”, dal latino Lucius che significa luminoso, indica la contrapposizione dialettica cristiana al culto pagano della religione astrale della Luna, predominante nei culti preromani.
C. L’ACCADEMIA DI BELLE ARTI (EX CONVENTO DI SAN FRANCESCO AL PRATO)
Tra l’Oratorio di San Bernardino e la Chiesa di San Francesco al Prato, c’è l’antico convento di San Francesco, oggi sede dell’Accademia di Belle Arti “Pietro Vannucci”. Fondata nel 1573 dal pittore Orazio Alfani e dall’architetto Bino Sozi, l’Accademia ha la sua sede in questo edificio dal 1901.
Tre sono le collezioni artistiche che vi sono conservate:
– la gipsoteca con 400 pezzi, tra cui l’Aurora, il Crepuscolo, il Giorno e la Notte, calchi di Michelangelo donati nel 1573 dallo scultore di Vincenzo Danti e le Tre Grazie di Antonio Canova, donati dallo stesso nel 1820.
– disegni e incisioni datati tra il XVI e il XIX secolo.
– raccolta di quadri di autori perugini del XIX secolo.
D. LA CHIESA DI SAN FRANCESCO AL PRATO
San Francesco e Perugia
Al termine di via San Francesco è la piazza dominata dalla chiesa di San Francesco al Prato, cui si affianca, a sinistra, l’oratorio di San Bernardino, e poco oltre a destra alla chiesetta di San Matteo in Campo d’Orto.
I primi rapporti di Francesco d’Assisi con la città risalgono al 1202, durante lo scontro tra Perugia e Assisi, conclusasi con la vittoria della prima. Tra gli sconfitti , figurava anche il giovane Francesco, che fatto prigioniero, sperimentava il rigore del carcere perugino del Sopramuro. Francesco, dopo la conversione, era nuovamente a Perugia per incontrare papa Onorio III nel 1216. La bolla “Mira circa nos”, datata 19 luglio 1228 ed emanata da Perugia, con la quale Gregorio IX annunciava l’iscrizione di Francesco nell’albo dei Santi, a meno di due anni dalla sua morte (3 ottobre 1226)
Il legame del Santo con Perugia fu sempre molto viva nei secoli e ciò è testimoniato, da alcuni documenti quali quello del 1445 in cui si istituiva la Solennissima Processione, nel giorno della festa del Santo, indetta dai Magistrati in perpetuo. Nel 1657 San Francesco fu eletto come avvocato e compatrono della città, in seguito ad una sua intercessione per risolvere una epidemia scoppiata in città.
Nel 1442 i Perugini avevano addirittura cercato di sottrarre ad Assisi le spoglie del Santo, adducendo motivazioni di maggiore tutela e protezione per le Reliquie. La risposta di papa Eugenio IV, con bolla del 21 dicembre 1442, fu ovviamente negativa.
Il profondo carisma di Francesco a Perugia si nota anche dal numero di conventi francescani dislocati nel territorio (soltanto nel ‘300 vi erano 14 Conventi maschili nella Diocesi). Il primo insediamento francescano nella città di Perugia fu il Convento di Pàstina (risalente addirittura al 1212-1214) nella zona collinare di Porta Sant’Angelo. Nel 1253 i frati vendettero questo luogo, con le strutture che vi avevano edificato, alle Monache Benedettine di Sant’Angelo del Renaio (monastero fuori Perugia) al prezzo di L. 2000 da investire “in loco novo beati Francisci de Perusio posito in Campo de Orto”. (le Sorelle vi rimasero fino al 1815). Il luogo, lasciato dai Minori e in cui si trasferirono le monache, prese il titolo di San Francesco delle Donne.
Tra il 1248 del 1256 i Francescani riescono ad ottenere l’area di San Matteo in Campo d’Orto che apparteneva a Santa Croce di Fonte Avellana. La posa della prima pietra fu eseguita da papa Innocenzo IV negli anni 1251-1256, a ridosso del primo cerchio delle mura, in sintonia con l’orientamento dell’Ordine, che era favorevole all’inserimento dei frati nel tessuto urbano, per un più incisivo servizio pastorale, caritativo, sociale e culturale. Per costruire la nuova sede, i frati ottennero dai magistrati della città un appezzamento di terra presso Porta Santa Susanna, a cui si aggiunse, su reiterate pressioni dei papi Innocenzo III e Alessandro IV, l’area della Cappella di San Matteo in Campo d’Orto, che apparteneva ai Monaci Camaldolesi di Santa Croce di Fonte Avellana.
L’insediamento francescano
Da allora in poi in questa zona i Minori ebbero stabile insediamento; vi edificarono la chiesa ad un’unica navata, con transetto ed absidi poligonali. Il nuovo tempio si impose alla devozione dei fedeli che qui assai di frequente sceglievano le loro sepoltura o che comunque destinavano ai Minori di questo luogo lasciti testamentari. Vi furono sepolti il giurista Bartolo da Sassoferrato ed il condottiero Braccio Fortebracci. Varie famiglie dell’aristocrazia ambirono avere qui proprie cappelle monumenti funebri. Nel corso del sec. XIV il convento fu sede di uno Studium “quod dicitur generale”. Con la divisione interna all’Ordine francescano tra Conventuali ed Osservanti, San Francesco al Prato divenne sede dei Conventuali mentre gli Osservanti ebbero la loro roccaforte a Monteripido (San Francesco del Monte). Il convento minoritico divenne sede di un importante tribunale inquisitoriale e di un celebratissimo “Studium Generale”, di fama europea, illustrato da lettori tanto rinomati che richiamavano da tutta Italia un gran numero di giovani studenti; fu frequentato anche da Francesco della Rovere (futuro Sisto IV) come docente e da Giuliano della Rovere (futuro Giulio II) come alunno.
Negli anni 1322, 1453, 1464 e 1581 vi si celebrarono importanti Capitoli generali dell’Ordine, il primo dei quali fu memorabile perché, sulla controversia questione della povertà assoluta di Cristo e degli Apostoli, emise un pronunciamento rigorista, discordante con quello di papa Giovanni XXII.
La chiesa
La chiesa, sita presso il Rione di Porta Santa Susanna, nel luogo noto come Campo dell’Orto, è una delle più belle sorte in Italia in stile gotico, ma anche molto importante per le predicazioni di oratori di fama quali San Bernardino da Siena, San Giacomo della Marca, San Giovanni da Capestrano e il Beato Alberto da Sarteano, definiti le “quattro colonne dell’Osservanza” che fecero risuonare le loro predicazioni non solo nella chiesa ma anche nel giardino attiguo.
Scavi archeologici iniziati nel 2001, in occasioni dei recenti interventi di recupero dell’edificio, hanno portato alla luce l’antica chiesa di Santa Susanna, utilizzata come fondamenta per parte della nuova chiesa dedicata al Santo di Assisi ma documentata tra il XI e il XII sec. Della chiesa non si conosco le reali dimensioni, ma le tracce ancora individuabili al piano inferiore della Chiesa di San Francesco al Prato consentono di ritenerla di una certa imponenza. L’orditura delle pietre dell’antico saccello, forse corrispondente all’abside della precedente chiesa, è la stessa ravvisabile nelle fondazioni delle mura perimetrali del livello inferiore della chiesa francescana. La stratigrafia degli intonaci, le modeste dimensioni , uniti ad altri elementi che dimostrano una continuità cultuale dell’ambiente nei secoli,inducono a ritenere che si tratti del luogo dove fu rinvenuto il Sarcofago con le storie di Giona, databile al 360 d.C., che attualmente è conservato nel vicino Oratorio di San Bernardino e utilizzato come altare. Il sarcofago venne utilizzato dai Francescani per custodire le spoglie del Beato Egidio, amico e terzo confratello di Francesco.
La chiesa ha una pianta a croce latina con scarsella pentagonale, transetto e un’unica navata (riprende il modello assiale delle chiese francescane) e suddivisa in tre campate; in origine con copertura volte a crociera ad ogiva in laterizio,con archi a sesto acuto delimitati da costoloni prismatici che poggiavano su peducci compositi, con capitelli a cono rovesciato ornati agli angoli. Tali peducci sono situati a tre quarti d’altezza dal piano di calpestio e sono rinforzati all’esterno da contrafforti che avevano la funzione di bilanciare le spinte in corrispondenza delle volte. Bifore si aprono sulle pareti laterali e sull’abside pentagonale, purtroppo crollata
La facciata
La facciata della chiesa di San Francesco, policroma, chiusa tra due poderosi contrafforti laterali, richiama lo stile romanico e il gusto cosmatesco, largamente ricostruito intorno al 1962, come in origine, dopo la demolizione degli edifici che erano stati addossati nel XVII sec. Presenta un rivestimento in pietra del Subasio bianca e rosa e tarsie colorate
La facciata si compone inoltre di un portale a tutto sesto, affiancato da due nicchie per parte con archi a pieno centro a fondo piano che danno l’illusione di essere piccole gallerie; probabilmente decorate in origine con pitture murali.
In asse con il portale vi sono un’edicola trilobata, decorata nel XIV sec con un affresco raffigurante San Francesco che riceve le stigmate e un rosone, composto da “esili losanghe scorciate da ambo le parti, recanti nel centro dell’intreccio di due triangoli equilateri su fondo granito, il quale dovette un tempo essere ricoperto da mosaici cosmateschi”. Il gioco dei colori della facciata segue un gusto prettamente pittorico e ha dei confronti con altre chiese perugine come Santa Maria in Monteluce, Santa Giuliana e Sant’Agostino.
L’interno
L’interno della chiesa, oggi completamente spogliato degli antichi arredi, era ricoperto di affreschi, databili tra il XIII e il XIV sec (lo testimoniano tracce di colore ancora visibili negli anni ’20 del ‘900 e riportate in documenti dell’epoca) ed ospitava numerosi capolavori in parte trasferiti nella Galleria Nazionale dell’Umbria, in parte emigrati in raccolte nazionali o estere. Tra le opere più significative si ricordi la celebre Deposizione Baglioni di Raffaello oggi nella Galleria Borghese di Roma, l’Incoronazione della Vergine, sempre di Raffaello, oggi nella pinacoteca vaticana, lo sposalizio di Santa Caterina di Orazio Alfani attualmente nel museo del Louvre, la Resurrezione di Pietro Perugino oggi nella Pinacoteca Vaticana.
La Cappella della Concezione
Tra il fianco sinistro e il transetto fu inserito a metà del quattrocento l’oratorio della confraternita della Santissima Concezione (o del gonfalone di San Francesco) rivestito, come di consueto, da intarsi di marmo bianco e rosa, destinata a custodire la sacra immagine della Madonna della Misericordia e seguita da Mariano d’Antonio e Benedetto Bonfigli su incarico della confraternita medesima.
Essa ospitava il Gonfalone di Benedetto Bonfigli (1464), eseguito in occasione di una pestilenza, il sarcofago di Braccio Fortebraccio e il sepolcro di Bartolo da Sassoferrato. L’altare era in pietra rossa del XIV sec. Allo stesso periodo apparteneva la bella cancellata in ferro battuto.
Le trasformazioni e i restauri
La chiesa ha subìto radicali trasformazioni – soprattutto all’interno – a causa dei numerosi interventi di restauro tentati nel corso dei secoli per arrestare il dissesto statico delle murature dovuto al terreno franoso, ricco di falde acquifere sotterranee. A ciò vanno sommate calamità che hanno accelerato il degrado delle strutture, come i forti terremoti del 1340, 1640, 1695 e 1701.
Nel 1527, copiose piogge provocarono frane in diverse zone della città, colpendo soprattutto la Contrada di Porta Santa Susanna.
Sul finire del XIV secolo si pensò di porre rimedio ai problemi di staticità con l’aggiunta di corpi di fabbrica laterali per contenere le spinte. Si procedette così alla costruzione, all’esterno dei bracci del transetto, negli angoli della crociera, di cappelle gentilizie, per le famiglie più in vista e cioè i Baldeschi, gli Oddi, a sinistra, i Montesperelli e i Michelotti, a destra. Di queste rimangono soltanto le prime due addossate ai bracci del transetto: quella dei Baldeschi nel destro, degli Oddi nel sinistro. Ciascuna di queste quattro cappelle aveva un impostazione a pianta quadrangolare con volta costolonata ogivale retta da pilastri cantonali in cotto ed esse comunicavano direttamente con la navata e con il transetto della chiesa mediante arconi ogivali decorati con tarsie maiolicate e sormontati da corsive ghiere di marmo.
A queste si accedeva dalla navata attraverso degli archi ogivali contornati da decorazioni geometriche colorate con marmi e terrecotte invetriate di cui rimangono dei frammenti
Nel ‘400 Braccio Fortebracci da Montone si era occupato del consolidamento del Tempio richiedendo la consulenza di architetti perugini, senesi, aretini e perfino francesi. Nel 1421, proprio per volere di Braccio, fu indetto un Concorso, vinto da Bartolomeo di Pace, che fece costruire due archi rampanti nella parte nord della chiesa, in corrispondenza della sacrestia.
Nel 1465, direttamente sulla facciata, venne edificata, in modo del tutto arbitrario, un’ampia cappella, poi chiamata “Del Gonfalone di San Francesco al Prato”, perché destinata a conservare il Gonfalone di Bonfigli, in seguito demolita.
Dalla seconda metà del XVII secolo, gli interventi di restauro si susseguirono senza sosta. Le cronache seicentesche testimoniano come si tentò di rallentare il movimento franoso e l’ulteriore aggravamento dei problemi statici, anche attraverso la costruzione di una rete di cunicoli e di gallerie per raccogliere e convogliare le acque nella Fonte del Piscinello e in quella dei Tintori, a valle della Chiesa
Nel sec XVIII si volle tentare un nuovo intervento affidandone la direzione all’architetto Pietro Carattoli (1737) che studiò accuratamente le rovine della chiesa, giungendo alla conclusione che le cause erano due: l’instabilità del terreno e il gran peso della volta. Egli allora, dopo aver fatto demolire le volte lesionate ed aver fatto abbassare i muri perimetrali di circa 2 m (un restauro in epoca moderna li ha riportati alla quota originaria), provvide al rinforzo interno delle murature con una “camicia” di rivestimento di un metro circa di spessore, con proprie fondamenta costruite con materiali di riempimento indipendenti da quelle della cripta sottostante, su cui impostò una volta di tipo romano e una cupola. Questa foderatura tuttavia non è del tutto autonoma ma necessita di ancoraggi che in alcune zone hanno deturpato in maniera vistosa e invasiva le strutture architettoniche preesistenti e reso più difficile la lettura della stratigrafia d’insieme. La nuova struttura concepita come un miglioramento, risultò invece molto invasiva, danneggiando gli affreschi trecenteschi delle pareti e gli altari rinascimentali. Per di più il movimento franoso del colle rese effimera anche questa ricostruzione, in quanto appesantì la strutturale e accelerò il processo di cedimento.
Per risolvere il problema del campanile, fu necessario abbassare di un ordine il campanile. Questo intervento tuttavia non bastò alla risoluzione del problema e si procedette poco dopo allo spostamento dello stesso nel lato destro della costruzione.
Si rese necessario a questo punto demolire alcune cappelle preesistenti, fra le quali la Cappella delle Sacre Reliquie, quella di Santa Elisabetta e quella delle Stimmate.
Da subito la cittadinanza non fu entusiasta del nuovo assetto. Gli interventi di rinnovamento di fatto iniziarono nel 1740 e otto anni più tardi, il 5 maggio del 1748, la chiesa fu di nuovo consacrata con l’autorizzazione del vescovo Riccardo Ferniani; tuttavia i lavori proseguirono fino alla fine del secolo e determinarono la demolizione e sostituzione delle originarie volte gotiche lesionate con volte a botte; il consolidamento delle parti sconnesse; la realizzazione, con fondamenta autonome, di una incamiciatura di tutta la superficie muraria interna; la completa ricostruzione della sacrestia; la costruzione di una cupola sopra il transetto, sostenuta da un composito sistema di colonne e di pilastri di ordine ionico e mascherata, all’esterno, da un semplice tiburio cilindrico munito di lanterna. Il catino absidale e i pennacchi della cupola furono decorati tra il 1870 e il 1871, da Francesco Appiani con le Virtù teologali e le Virtù Cardinali, andate distrutte per l’incuria degli uomini. La rimanente decorazione plastica fu iniziata da Carlo Murena e, fra il 1780 e il 1793, fu proseguita da un’equipe di artisti luganesi tra cui Francesco Monti; gli ornati in pittura furono invece eseguiti da Gerolamo Perugini.
Carattoli per sostenere il peso delle murature perimetrali non solo creò l’incamiciatura ma anche colmò con uno strato di riempimento tutto il piano inferiore della chiesa stessa, fino al raggiungimento dei vani dell’antica cripta, a causa della necessità di creare un piano solido in grado di sostenere il peso in superficie. Nelle intenzioni dell’architetto perugino l’idea era quella di alleggerire le strutture dell’edificio che poggiavano pesantemente sulle fondazioni creando cedimenti del terreno; tuttavia l’idea si rivelò un vero fallimento in quanto non diminuì affatto il peso delle strutture anzi lo caricò maggiormente, aggravando le precarie condizioni dell’edificio.
Da questo momento in poi si registra un progressivo declino delle strutture della chiesa, aggravato dalla spoliazione di opere d’arte nel periodo napoleonico e poi dagli effetti del decreto di soppressione delle corporazioni religiose, l’editto Pepoli dell’11 dicembre 1860, in base al quale i frati vennero allontanati dal loro convento e il tempio divenne proprietà del Municipio.
Dal 1862 alcuni locali furono occupati di militari, altri dalla scuola di veterinaria e in altri ancora il lazzaretto, assecondando la legge del 21 agosto che prevedeva la destinazione dei Conventi ad uso di pubblica utilità e beneficienza; nel 1865, alcune aree furono utilizzate come deposito di materiale proveniente dalle polveriere dell’ex forte Paolino. Negli ultimi ambienti rimasti liberi furono impiantate una fabbrica di carte da gioco e uno stabilimento tipo-litografico; nel 1873, venne trasferito anche un laboratorio di pittura su vetro e di restauro, appartenente a Francesco Moretti.
Nel 1880 il comune ufficializzò con lo Stato l’atto di cessione dell’ex Convento.
Tuttavia, ad appena un secolo di distanza, a causa della precarietà delle strutture, si fu costretti a demolire la cupola, le volte di navata e del transetto, parte dei muri absidali, oltre che la copertura della cappella Baldeschi
Nel 1891 l’amministrazione comunale sistemò in alcuni ambienti del convento una stazione di monta di cavalli, adattandovi stalle, mangiatoie e casse per conservare fieno. Nel 1896 si procedette ad un utilizzo più decoroso delle sacre strutture, con l’insediamento dell’Istituto Tecnico. Nel 1898 cominciavano i lavori di sistemazione dell’Accademia di Belle Arti . La sconsacrazione definitiva dell’intero Complesso pregiudicò definitivamente le sorti conservative, soprattutto dell’edificio religioso e di tutte le opere d’arte che esso ancora custodiva, che furono trasferite, trafugate, alienate e disperse in modo sconsiderato.
Tra il 1921 e il 1926 fu portato a termine il restauro della Cappella d’Oddi da U. Tarchi, che realizzò anche un’apertura sulla piazza. Nel 1926, in occasione del VII centenario della morte del frate, ebbe inizio un altro tentativo di restauro consistente nella ricostruzione della facciata, ad opera di P. Angelini, esattamente come l’origine, liberata dal casamento addossatovi nel ‘700 e nel ripristino di parte delle fiancate. Presto, tuttavia i lavori vennero interrotti per essere ripresi nel 1960 con nuove tecniche di intervento mirante soprattutto ad arrestare lo slittamento delle faglie. Nel 1962 fu iniziata l’opera di “scamiciamento”della struttura realizzata da Carattoli a suo tempo. Nel 1968 si verificò un importante crollo che interessò tutta la copertura. Proprio in questa occasione le pareti laterali furono riportate alla loro altezza originaria.Il tetto fu ricostruito con capriate metalliche (che verranno poi sostituite con quelle attuali in legno solo nel restauro del 2001). Nel 1971 è stata restaurata la Cappella Baldeschi nel braccio destro del transetto.
Nel 1982 l’architetto perugino Bruno Signorini presenta il progetto per il nuovo Auditorium, all’interno del progetto di salvaguardia e rivalorizzazione del monumento. Questo prevedeva, tra le altre cose, la copertura con una vetrata dell’abside mantenendo la scenografia naturale data dal cielo nella stanza absidale. Purtroppo in seguito al sisma del 1997 e alle costruzioni edilizie che hanno interessato la parte sottostante la collina, si è deciso di realizzare una vetrata solo per la copertura del catino absidale, mentre per l’abside e il transetto si è optato per una struttura metallica.
Le citazione dell’edificio nell’arte umbra
Nel Gonfalone di San Bernardino, dipinto nel 1465 da Benedetto Bonfigli, è rappresentata la facciata incompiuta della chiesa a partire dalla fascia policroma sopra il rosone fino alla cima del timpano. Altro particolare ben visibile dal manufatto e la presenza di un campanile gotico di forma cilindrica con torre campanaria poligonale e cuspidata, posizionato tra l’angolo interno della zona a sinistra del coro e il framezzo della navata. Vi si accedeva da una scala a chiocciola interna che percorreva l’intera struttura fino alla cella campanaria, dove si trovavano le tre celebri campane tutt’ora esistenti: la più antica fusa da Giovanni Pisano nel 1286, la seconda, la più piccola, realizzata nel 1305 dai maestri Giovanni e Andrea da Pisa, la terza, la più grande, fusa nel 1342 da Nicola e Giovanni da Orvieto. Nel 1745 fu aggiunta una quarta campana a corredo del nuovo campanile.
San Francesco d’Assisi
Nasce ad Assisi tra il 1181 e il 1182 da Pietro di Bernardone e Giovanna Pica. Nel 1202, durante la decennale guerra tra la guelfa Perugia e la ghibellina Assisi, nella battaglia di Collestrada, il giovane Francesco venne catturato e rimase prigioniero dei nemici per circa un anno, quando fu liberato dietro pagamento di un riscatto. La prigionia tuttavia lo aveva cambiato: si privò di tutti i suoi averi, vendendoli e dando il ricavato ai poveri. Nel 1205, citato dal padre per danni e giudicato nella pubblica piazze, rinuncia definitivamente ad ogni agiatezza e bene e abbraccia la completa povertà. Il 24 febbraio 1208, dopo un periodo di ritiro e preghiera, inizia la sua predicazione per le strade, prima nei dintorni di Assisi e poi in tutta l’Umbria. Nel 1209 si reca a Roma per chiedere l’autorizzazione della Regola di vita da papa Innocenzo III. Durante la notte di Natale del 1223, a Greccio, Francesco diede inizio alla tradizione del Presepe vivente, mettendo in scena proprio la Natività. Il 14 settembre del 1224, sul Monte della Verna, Francesco ricevette le Stimmate. Morì al tramonto del 3 ottobre 1226 nei pressi della Porziuncola. È stato proclamato santo il 16 luglio del 1228. La festa ricorre il 4 ottobre. È Patrono d’Italia.
L’Ordine francescano: i Conventuali
La famiglia dei Frati Minori Conventuali si considera in continuità storica e spirituale con l’originario Ordo Minorum fondato da San Francesco.
Nel 1274, alla morte del Ministro Generale san Bonaventura, nell’Ordine si andò sempre più approfondendo l’allontanamento fra la posizione dei “frati della comunità”, detti anche Conventuales, che privilegiano le presenze delle comunità nelle città per la predicazione del vangelo e il servizio ai poveri e quella degli “zelanti”‘ o “spirituali”, dapprima, e più tardi degli Observantes, che professavano ideali di povertà assoluta e sottolineavano la dimensione eremitica e ascetica del francescanesimo.
All’inizio del XVI secolo, papa Leone X, constatata l’impossibilità di far convivere sotto una stessa regola ed un medesimo governo gli Osservanti ed i Conventuali, con la bolla Ite Vos del 29 maggio 1517, fuse tutti i gruppi riformati nell’Ordine dei Frati Minori della Regolare Osservanza: gli altri andarono a costituire l’Ordine dei Frati Minori Conventuali, sotto la guida di un Maestro Generale.
E. LA CHIESA DELLA MADONNA DELLA LUCE
L’elegante facciata della chiesa, in travertino, costruita per conservarvi l’immagine miracolosa, prima sita in Via degli Sciri., risale al 1513-1519, come ricorda la scritta in caratteri umanistici sul cornicione dorico sorretto dai pilastri angolari, ed è variamente attribuita dalla critica a Cesarino di Francesco del Roscetto oppure a Giulio Danti. È aperta da un portale sormontato da una lunetta e da un piccolo rosone adorno di festoni; al culmine dell’edificio la terminazione a timpano Alla base delle paraste alcuni grifi rampanti. La chiesa fu costruita grazie a finanziamenti del Comune per ricordare il miracolo avvenuto sette anni prima quando l’imprecazione di un giovane artiere fece chiudere gli occhi ad un’immagine della Vergine che sorgeva in un edicola davanti alla Confraternita di San Francesco. L’immagine in questione è l’affresco quattrocentesco con la Vergine, incoronata da due angeli, tra i Santi Francesco e Ludovico di Tiberio d’Assisi (1470 – 1524), collocato sulla nicchia dell’altare, in una cornice dorata barocca. Sull’arco sopra l’affresco la scritta in latino NUBES DIEI SEMPER INT VCF. Sulla volta della cupola è l’Eterno in Gloria tra gli Evangelisti di Giovan Battista Caporali, (1532). L’interno è ad un’unica navata. Sulla parete destra una nicchia rettangolare ospita un Crocifisso ligneo.
F. L’ORATORIO DELLA CONFRATERNITA DEI DISCIPLINATI DI S. FRANCESCO
Proseguendo lungo via dei Priori in direzione del centro, si giunge all’altezza del “quartiere degli Sciri”, segnalato dalla Torre alta ben 46 m, superstite testimonianza delle tante poste a controllo degli isolati gentilizi, tutte abbattute durante le guerre tra fazioni cittadine tra XV e XVI secolo o inglobate in edifici successivi. In via degli Sciri, inglobato nel complesso da cui spicca la torre, il Conservatorio di Terziarie Francescane di Suor Lucia (1680) e poco oltre l’Oratorio della Confraternita dei Disciplinati di S. Francesco.
La Confraternita nacque dopo la seconda metà del XIII secolo, nell’ambito del movimento dei Flagellanti e si trasformò alla fine del XIX secolo nel Pio Sodalizio di Braccio Fortebraccio. Il portale in marmo risale al XVI secolo.
All’interno, gli stucchi dell’atrio d’ingresso sono opera di Jean Regnaud, conosciuto come Giovanni di Sciampagna (1675-1676). Nella stanza successiva c’è la Sala del Consiglio o dei Confrati è conservato il ritratto di Braccio Fortebraccio, probabilmente di fantasia essendo del XVI secolo e cassetta per le votazioni del ‘500 e infine l’Oratorio.
Questo, in stile barocco, presenta un soffitto a cassettoni è intagliato dal perugino Ercole di Tommaso e Girolamo di Marco il Veneziano (1574) e dorato dal perugino Fiorenzo di Giuliano (1600). I seggi in noce, lungo le pareti, sono del perugino Marco Pace e i fregi e gli ornati di Sciarra Bovarelli da Gubbio (1584); i due seggi laterali, quello dei Priori e l’opposto dei Regolatori, sono di Giampietro Zuccari da S. Angelo in Vado, realizzati tra il 1585 e il 1604, autore anche degli intagli delle cornici che racchiudono il ciclo pittorico a tema cristologico Le otto grandi tele delle pareti maggiori costituiscono il principale ciclo pittorico di Giovanni Antonio Scaramuccia, realizzato tra il 1611 e il 1627. Iniziando dalla parete d’entrata, in prossimità dell’altare: Annunciazione, Visitazione, Natività e Adorazione dei Magi. Nella parete opposta: Presentazione al Tempio, Fuga in Egitto, Disputa con i Dottori e Resurrezione. L’altare è opera di Benedetto di Giovanni (1558). La pala d’altare con l’Ascensione di Cristo, è di Leonardo Cungi da Borgo San Sepolcro (1558); il S. Francesco, a sinistra e il S. Ludovico, a destra, sono del perugino Paolo Gismondi (1665), allievo di Scaramuccia e Pietro da Cortona. Sulla parete opposta, S.Agostino, a sinistra e S.Domenico a destra, dipinti da Bernardino Gagliardi da Città di Castello nel 1657. Nella Sacrestia sulla parete di fondo, è il Gonfalone processionale della Confraternita, dipinto dal perugino Pietro di Galeotto (1480), raffigurante la Flagellazione di Cristo. Al centro della stanza sono preziosi paramenti sacri dei primi dell’Ottocento.
G. LA TORRE DEGLI SCIRI
La Casa-Torre degli Sciri, famiglia perugina del XV-XVI secolo, a pianta quadrata, è attestata già nel XIII secolo e prima del 1562 era di proprietà della famiglia De Colis; non si conoscono i nomi dei proprietari ancora precedenti, probabilmente i Degli Oddi. È l’unica tra le oltre 500 torri per cui Perugia era famosa, ancora in piedi grazie all’impiego come granaio
H. LA CHIESA DEI SANTO STEFANO E VALENTINO
La chiesa dei Santi Stefano e Valentino è attestata già prima del 1163. È formata da due navate: una romanica risalente al XII secolo e della quale si vede la piccola abside vicina all’ingresso orientale, essendo, al momento della costruzione, opposto l’orientamento della Chiesa; l’altra, di ampliamento, del XIV secolo. Sono ancora visibili frammenti di affreschi, tra i quali il polittico parietale raffigurante S.Caterina e l’Arcangelo Michele, attribuiti al M° Ironico (fine XIV-inizi XV secolo); a destra l’affresco staccato del XVII secolo rappresenta l’Eterno e Santi; sull’altare il bel Polittico (Crocifissione con Santi, ad imitazione dell’arte quattrocentesca, del perugino Giustino Cristofani -1911) e a sinistra dello stesso, sulla parete di fondo, Madonna in trono tra i Santi di Domenico Alfani (pittore perugino vissuto tra il 1480 e il 1533). Su un pilastro vi un affresco raffigurante la Madonna con un lontano paesaggio alle spalle. Infine in alto a destra c’è il residuo di una Crocifissione del XV secolo. È sormontata dal caratteristico campaniletto a vela. Davanti la chiesa , nella piazzetta ottenuta dalla demolizione delle stalle di Palazzo Degli Oddi, un sedile e una maiolica ricordano il sito dell’abbeveratoio dei cavalli.
I. IL PALAZZO MARINI-CLARELLI
Il Palazzo Degli Oddi, oggi Marini-Clarelli-Degli Oddi, fu costruito nel ‘500. La facciata esterna, settecentesca, è ampia e sobria e l’interno è conservato un ciclo di affreschi tardo seicenteschi dapprima attribuiti alla Scuola degli Zuccari e oggi attribuiti ad artisti locali formati nelle botteghe di Barrocci e Lombardelli. (A. Pesola, Contributi per la storia della pittura tardo manieristica a Perugia: Silla Piccinini. Tesi di Laurea della Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Perugia, a.a. 1989/1990) Il ciclo comprende sedici riquadri, rappresentanto fatti storici della Famiglia Degli Oddi, intramezzati dalle figure di Apollo, delle Nove Muse e delle Quattro Virtù, con gli Stemmi del Cardinale De’Medici e del Duca Della Rovere.
La famiglia nobiliare Degli Oddi è attestata a Perugia fin dal Duecento, nel quartiere dove oggi sorge la casa. Tra i vari titoli ebbe anche quello di conti di Laviano e di Poggio Aquilone e la proprietà di Monte Malbe.
L. L’ORATORIO DI SANTA CECILIA
L’Oratorio di Santa Cecilia dei Padri Filippini fu realizzato tra il 1687 e il 1690 su disegno di Pietro Baglioni. Vi si accede attraverso un portale a mattoni. Ha la pianta di un piccolo teatrino a pianta centrale a croce greca e due ordini di coretti, sormontata da una cupola, retta da pilastri dorici con cornicione decorato da metope e triglifi
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